CRISTIANO CARRIERO

CRISTIANO CARRIERO

Founder La Content | Author | Storyteller. Co-fondatore de La Content di cui è Academy director, insegna storytelling e scrittura a La Classe, è ideatore dello Storytelling Festival. Giornalista, scrive di calcio e cultura per Esquire, Rivista11 e Il Fatto Quotidiano e di lavoro per SenzaFiltro. Speaker TedX, ha già pubblicato, per Hoepli 12 titoli tra cui Facebook Marketing, Content Marketing, LinkedIn lavoro e carriera, Post Social Media Era, e Professione Content Marketer. È curatore della collana web 2.0 Hoepli, scrive anche romanzi. L’ultimo si chiama 24 Dicembre. La sua newsletter è L’ho fatto a Posta.

Per cominciare spiegaci, cos’è lo storytelling?

Alessandro Baricco dice che se prendete la realtà e sfilate via i fatti tutto ciò che resta è storytelling. Ha ragione, ma è altrettanto vero che la realtà che raccontiamo è composta dai fatti e dalle storie. È così nel nostro vissuto, nella nostra percezione, nel marketing, nella comunicazione. Quando parliamo di un prodotto o di un servizio, di un film, di un romanzo, non parliamo solo di fatti, parliamo anche e soprattutto di storie.

Come è nato il tuo interesse per lo storytelling e quali sono stati i momenti chiave del tuo percorso che ti hanno portato a fondare La Content?

Sono interessato da sempre alle storie, da quando ai tempi della scuola ho capito che avevano un potere salvifico. Da quando incollavo le foto sui diari e ci aggiungevo qualcosa di mio. Da quando durante gli inter-rail fatti da ragazzo capii che raccontarsi storie era il modo migliore per far passare le lunghe notti in treno o alla stazione. In mezzo ci sono state tante altre cose: le esperienze in agenzia, in azienda, da freelance. Le prime campagne di storytelling fatte da solo, quelle che mi hanno fatto pensare che fondare un’azienda che si occupasse di divulgazione, ideazione e produzione poteva essere un’idea vincente. O quantomeno funzionante.

Cosa ti ha spinto a scrivere su tematiche così diverse, dal marketing alla narrativa?

La voglia di contaminazione. Sono fermamente convinto che non si possa fare marketing senza avere conoscenza di letteratura, di cinema, di creatività e arte in generale. E tutto sommato sono anche convinto del contrario. Le idee che funzionano sono idee che vendono, quindi anche se la focalizzazione è tutta sull’opera d’arte c’è da qualche parte una storia – studiata o no – che porta le persone ad appassionarsi e volerla condividere. Il principio è esattamente lo stesso: creare un “prodotto” (mi perdoni che fa arte) degno di essere raccontato.

Qual è il progetto o la collaborazione di cui vai più fiero nella tua carriera?

Oggi La Content lavora con aziende come Aon, Banca Credem, Consorzio del Primitivo di Manduria, Finlogic, Teatro Pubblico Pugliese. Iniziano a essere nomi importanti rispetto ai clienti dei primi anni, ai progetti che facevamo con clienti più local (alcuni bellissimi e prestigiosi come quello con Pasta Granoro) per farci conoscere. Sono più orgoglioso di questa crescita che del singolo progetto, ma se me ne chiedi uno su tutto ti dico “Mare a Sinistra” con Regione Puglia. Perché nasce da una intuizione: uno speech durante ABCD, un innamoramento da parte del Presidente della Regione al quale viene raccontato da chi era lì ad ascoltare. Una suggestione letteraria che diventa strategia di valorizzazione e attrazione di talenti al Sud. Un progetto di impegno verso la mia terra, la Puglia, cosa che mi rende orgoglioso al pari di aver seguito il City Brand di Jesi, la città in cui ho passato tanti anni e che mi sono tatuato sul braccio (accanto a Bari, ovviamente).

Secondo te, quali sono le caratteristiche essenziali di una storia che sa coinvolgere e ispirare?

Un incipit che non ti aspetti, ma che sappia essere tanto spiazzante quanto rassicurante. Bisogna sentire una scossa, ma al tempo stesso dire “non voglio andarmene proprio adesso”. Una bella storia non è un flusso di coscienza, e gli algoritmi (dei social, delle piattaforme di intrattenimento e persino quelli del nostro cuore) lo sanno. Forse l’unico vero consiglio che mi sento di dare è quello di raccontare la storia degli altri. Magari attraverso la nostra. Ma non sono le nostre vicende che interessano alle persone: sono le nostre ogni volta che diventano la vita degli altri.

Quali differenze trovi tra raccontare storie per il business e per la narrativa?

Entrambe devono vendere, per quanto questa cosa possa sembrare incredibile. Ma, in entrambi i casi, se ci si concentra sul “prodotto” (quindi sulla storia) piuttosto che sulla vendita, si possono raggiungere risultati importanti, inaspettati. Quindi parto da cosa hanno in comune. Per il resto è ovvio che si tratta di due mestieri completamente diversi: ci sono bravissimi autori che sarebbero pessimi Chief Storyteller, perché lì si tratta di gestire persone, risorse, conoscere la pianificazione, le piattaforme e molti altri aspetti che riguardano più il marketing e la comunicazione che la narrativa. Così come ci sono ottimi Chief Storyteller che non potrebbero mai fare gli scrittori. La scrittura è una maratona, uno dei pochi lavori in cui è possibile realizzarsi anche a 100 anni. Non si può diventare – potenzialmente – un bravo sportivo dopo una certa età e nemmeno un musicista, un professionista e chissà quanti altri lavori. Uno scrittore sì.

Qual è stata la sfida più grande che hai affrontato come storyteller e come l’hai superata?

Credo che non ci sia sfida più grande di aprire una azienda e farla crescere e prosperare. Assumere persone, farle sentire parte di un progetto, coinvolgerle. E anche per fare questa cosa devi costruire una storia che sia condivisa e non solo nella tua testa. Noi con La Content ci siamo riusciti, siamo partiti con 1000 euro e quest’anno abbiamo fatturato quasi 1 milione. E per quanto i numeri siano la parte meno “romantica” del nostro lavoro, almeno apparentemente, per noi questa è una bellissima storia.

Tra i tuoi libri pubblicati, ce n’è uno che senti particolarmente vicino o rappresentativo del tuo modo di pensare?

Ho scritto cose molto diverse. Hoepli mi ha dato l’opportunità di diventare un punto di riferimento nel mondo del digital marketing, e sicuramente il primo titolo su Facebook ha dato il là ad una serie di libri e a 10 anni di pubblicazioni che hanno aiutato molti professionisti a crescere in questo lavoro. Content Marketing, Linkedin, Smart Working (uscito durante la pandemia). Sono affezionato ai titoli sul Bari (sì, scrivo anche di calcio), ai romanzi come Domani No (diventato anche audiolibro per Audible) e 24Dicembre, ma credo Lutto Libero raccolga la mia ispirazione e missione più grande: trasformare la morte in vita, il dolore in ardore. E in premura di raccontare, perché è l’unico modo per sopravvivere.

Nel tuo ruolo di docente, qual è la lezione più importante che cerchi di trasmettere agli studenti sullo storytelling?

Appassionarsi alle storie, liberarsi dalla convinzione che essere ascoltati – quando si racconta una storia, non in generale – sia un diritto e non una conquista. Perché l’attenzione delle persona va conquistata, ed è la cosa più bella, difficile, del mondo.

Come credi che l’editoria e la formazione nel campo della scrittura evolveranno nei prossimi anni?

Nonostante la crisi dell’editoria, vengono pubblicati sempre più titoli. Si vende di meno, molti editori attingono dal bacino dei social pensando che chi ha una community fedele automaticamente venderà più libri (e non sempre è così). Si parla molto di romanzi generazionali, ma le generazioni passano ed evolvono in fretta, ultimamente stiamo vedendo in libreria libricini più piccoli, storie brevi, che sono anche un antidoto analogico allo scrolling infinito che facciamo sui social per avere dopamina. Io credo che la lettura e la scrittura siano forme di resistenza e sono fiducioso sul fatto che le prossime generazioni useranno molto meno i social e di più i libri. Quando sono in ansia e prendo il telefono in mano non faccio altro che aumentarla, la mia ansia. Quando apro un libro respiro. La formazione nel campo della scrittura sarà più inclusiva, non solo dedicata a chi ha talento, ma anche semplicemente a chi ha voglia di mettersi alla prova con una storia. È quello che stiamo facendo da due anni con i corsi di Lucy Sulla Cultura in collaborazione con La Content, non per niente quello di maggiore successo si chiama “La gioia di scrivere”. Scrivere deve essere felicità, ognuno ci deve mettere quello che ha, non è detto che tutti diventi autori di best seller, ma va bene così!

Cosa rende un contenuto digitale veramente efficace e memorabile nell’era della sovraesposizione mediatica?

Prendiamo il caso di Trump, che vince le elezioni grazie ad un media nuovo: il video podcast. Se Roosvelt sfrutta la radio, Kennedy la TV, Obama Twitter e poi Facebook, Trump utilizza al meglio il media del momento. E sceglie di andarsi a far intervistare da podcaster e streamer, professionisti digitali molto diversi dai giornalisti. Lo fa ridendo, facendo battute, prendendo in giro la sua rivale (anche in maniera corretta) ma si ritrova con milioni di visualizzazioni e un consenso che va molto oltre quello che era il suo target. Questo per dire che nel digitale vince chi usa meglio (e con più consapevolezza) il mezzo del momento.

Come vedi il ruolo del giornalismo culturale e sportivo nel panorama attuale?

Per me, ma sono consapevole di essere una eccezione, cultura e sport sono facce della stessa medaglia. Non sempre è così però: ci sono format di intrattenimento sportivo (soprattutto calcistici) che vanno in direzione totalmente opposta. Un peccato, visto che la lingua italiana deve molto anche a Gianni Brera, Gianni Mura e altri giornalisti sportivi. In generale ci sono tantissimi giornalisti, creator e divulgatori interessanti, e credo che i social della nuova era (si pensi ai format “carosello” di Instagram o a TikTok o ai long form su YouTube) danno l’opportunità di poter essere specifici, andare nel profondo, pensare a contenuti “lunghi”. Il problema è che le persone si sono abituate a leggere in fretta, in situazioni scomode, smartphone oriented, e quindi anche contenuti divulgativi vengono consumati come snack. Questo, alla lunga, può essere un problema. Perché alla fine la “cultura” la decide il fruitore e non il creatore.

Come riesci a bilanciare l’aspetto tecnico del content marketing con la creatività dello storytelling?

Come ho detto sopra, mi sono costruito un lavoro in cui creatività e concretezza (ma chi ha detto che la creatività non è concreta?) devono coesistere. Non sono un artista, anche se ambisco ad esserlo. Magari in futuro.

Puoi anticiparci qualcosa sui tuoi prossimi progetti, siano essi nuovi libri, eventi o collaborazioni?

Nell’ultimo anno la mia priorità è stata quella di far crescere La Content dal punto di vista imprenditoriale: quindi ho fatto il founder, ho gestito persone e progetti ed ho messo in stand by alcuni progetti personali per questioni di tempo. Ho il grande obiettivo di far crescere la nostra Academy (de La Content), far diventare lo Storytelling Festival un appuntamento sempre più importante e di rilievo. Nei prossimi mesi uscirà per Franco Angeli un libro che fa parte della collana “Nuove voci del lavoro” e che si chiama Presenza. Sarà un libro molto importante, perché mi permette di passare dalla manualistica alla saggistica, che è una strada che vorrei battere nei prossimi anni e che potrebbe darmi nuove soddisfazioni.

C’è una storia che ancora non hai raccontato ma che sogni di scrivere?

Quella che racconterà alla figlia o al figlio che oggi non ho sarà la storia più bella di sempre.

Chi o cosa ti ispira maggiormente nel tuo lavoro quotidiano di scrittura?

Tutto quello che vedo. La musica, i film, la pubblicità (quando è bella), i post sui social, una chiacchierata con un amico/a, un libro. Tutto ispira, basta solo aver voglia di esporsi. Cosa che non sempre è facile, soprattutto in certi momenti della vita.

Qual è il libro o la storia che ha avuto più impatto su di te come autore e storyteller?

La storia infinita perché è stato uno dei primi film che ho visto al cinema e perché ho invidiato tantissimo Bastian che si chiudeva in quella stanza con la coperta a leggere. E a lottare contro il nulla che avanza. Sicuramente da bambino non ho capito il vero senso di quel libro/ film ma poi ho chiamato il mio evento The neverending storytelling festival. Non dobbiamo mai stancarci di raccontare storie, finché lo facciamo siamo vivi.

Qual è il feedback più inaspettato che hai ricevuto dai tuoi lettori o dal pubblico dei tuoi corsi?

Sinceramente li dimentico il giorno dopo, ma durante lo Storytelling Festival mi fermano molte persone per dire: “Si vede che dietro questo evento, oltre all’organizzazione maniacale, c’è il cuore. Voi sapete davvero metterci il cuore”. E poi mi dicono che il clima che si respira da noi è difficile da trovare e riprodurre altrove. Questo per me è il più bel complimento: ambire all’inimitabilità. Perché in fondo chiunque può chiamare gli stessi speaker che chiamiamo noi, portarli in teatro, farli parlare di storie. Io dico sempre che quando diciamo “dobbiamo alzare il livello” non ci rivolgiamo alla notorietà o alla bravura degli ospiti, perché erano bravi anche 5 anni fa. Ma a noi, al clima che riusciamo creare e al livello di non imitabilità.

Se dovessi definire il tuo stile narrativo in una frase, quale sarebbe?

La nave è turbine, torpedine, miccia, scintillante bellezza, fosforo, fantasia, molecole d’acciaio, pistole, rabbia, guerra lampo e poesia. (Francesco De Gregori, I muscoli del capitano)

Descriviti in tre parole.

Innamorato, generoso, incompiuto.

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