Samuel è un regista, sceneggiatore e scenografo nato a Napoli, ma cresciuto artisticamente tra i vicoli e le suggestioni dei Campi Flegrei. È in questo territorio ricco di storia, mito e contrasti che ha trovato la sua voce creativa, sviluppando un linguaggio cinematografico profondamente visivo e simbolico. Fin dall’infanzia, sente l’urgenza di raccontare storie, trasformando pensieri e visioni interiori in immagini in movimento, con il cinema come mezzo naturale per esprimersi. Il suo approccio autoriale unisce la memoria collettiva all’immaginario personale, fondendo passato e presente, spiritualità e narrazione visiva. Nei suoi lavori, la scenografia non è mai un semplice sfondo, ma un elemento vivo, parte integrante del racconto, capace di amplificare emozioni e significati. Ogni progetto diventa così un’esperienza immersiva, un viaggio tra estetica, simbolismo e indagine dell’animo umano. Attualmente è impegnato nella promozione del suo ultimo cortometraggio, La Porta del Perdono, un horror drammatico che esplora i temi del folklore, della colpa e della redenzione, ambientato interamente tra Napoli e i Campi Flegrei. Il film, patrocinato moralmente dai Comuni di Napoli, Pozzuoli, Bacoli e Pietravairano, è stato girato in location fortemente evocative come il Rione Terra, la Casina Vanvitelliana e il Castello Medievale di Pietravairano, veri e propri personaggi visivi che dialogano con la narrazione. L’anteprima ufficiale del film è prevista per il 10 maggio al Parco Borbonico del Fusaro, a Bacoli, in un evento che celebra l’unione tra cinema, territorio e memoria. Parallelamente alla regia, Samuel porta avanti un’intensa attività come scenografo e direttore artistico, con l’obiettivo di dare coerenza e profondità a ogni progetto. La sua visione è completa e totalizzante: dalla scrittura alla post-produzione, cura ogni fase del processo creativo, mantenendo un’estetica riconoscibile e autentica. Nel 2023 fonda CorsaroFilm, un team artistico e una vera e propria fucina creativa, pensata per accogliere giovani professionisti dell’audiovisivo. Con CorsaroFilm intende costruire un ambiente di lavoro inclusivo e sperimentale, dove il talento possa esprimersi liberamente e trovare spazio al di là dei circuiti convenzionali. Alla base c’è una profonda convinzione: l’arte deve essere accessibile, condivisa, e capace di generare connessioni autentiche.
Cos’è l’arte per te?
Per me l’arte è verità. È il mezzo più potente che abbiamo per esprimere ciò che non riusciamo a dire a parole. È uno specchio che ci obbliga a guardarci dentro, ma è anche un ponte che ci collega agli altri, alle nostre radici, ai nostri sogni. L’arte è un’urgenza, un bisogno profondo di raccontare, lasciare un segno, condividere un’emozione.
Cosa ti ha spinto per la prima volta a raccontare una storia attraverso il linguaggio del cinema?
Credo sia stato il desiderio di dare forma a quello che avevo dentro. Da piccolo ero affascinato dalle immagini, dai dettagli, dai silenzi più che dalle parole. Il cinema è arrivato come una rivelazione: mi permetteva di costruire mondi, di creare atmosfere, di far parlare anche ciò che non si vede. Raccontare una storia attraverso il cinema mi ha fatto sentire vivo e utile.
Ricordi un momento preciso in cui hai capito che questa sarebbe stata la tua strada?
Sì. È stato durante il primo set che ho organizzato in autonomia. Ero stanco, agitato, sommerso da problemi pratici… ma al tempo stesso, non mi ero mai sentito così nel posto giusto. In quel momento ho capito che il caos creativo era casa mia.
I Campi Flegrei sembrano avere un ruolo fondamentale nella tua poetica. Cosa rappresentano per te e come influiscono sulle tue scelte narrative e visive?
Sono il mio DNA. Non potrei raccontare senza il respiro profondo di questi luoghi. I Campi Flegrei sono un magma di storia, bellezza e inquietudine. Sono vivi, palpitanti, misteriosi. Quando scrivo o inquadro qualcosa, c’è sempre una parte di loro dentro. Mi guidano, mi ispirano, mi danno il senso del sacro e del pericolo. Sono la mia vera sceneggiatura.
In La Porta del Perdono mescoli horror, spiritualità e folklore. Da dove nasce questa fusione e cosa volevi trasmettere con questo cortometraggio?
Volevo raccontare qualcosa di universale ma radicato nel nostro territorio. L’horror per me non è solo paura, è introspezione, è ciò che si nasconde sotto la superficie. La spiritualità e il folklore si intrecciano in questo film perché rappresentano l’eredità culturale che portiamo dentro e che spesso ignoriamo. Con La Porta del Perdono volevo parlare di colpa, redenzione, memoria, ma anche dell’importanza di accettare le proprie ombre per evolversi.
Le location dei tuoi lavori non sembrano mai solo scenografie, ma veri e propri personaggi. Come scegli i luoghi in cui girare e che tipo di relazione vuoi creare tra spazio e racconto?
Esattamente così: per me i luoghi sono personaggi. Li scelgo non solo per la bellezza, ma per quello che comunicano a livello simbolico. Devono avere un’anima, una storia non detta, un’energia. Mi piace entrare in sintonia con gli spazi e farli dialogare con i protagonisti. A volte, è proprio un luogo che mi suggerisce la storia.
Con CorsaroFilm hai costruito una realtà indipendente e inclusiva. Com’è nata l’idea e cosa cerchi nelle persone che entrano a far parte della tua squadra creativa?
CorsaroFilm è nata dal bisogno di creare uno spazio libero, dove la creatività potesse fluire senza gerarchie soffocanti. Ho sempre creduto che il talento vada coltivato, non giudicato. Cerco persone che abbiano fame di arte, che non abbiano paura di mettersi in gioco, che vogliano crescere insieme. È un progetto collettivo, una famiglia artistica, una possibilità per chi vuole raccontare qualcosa di vero.
Ti occupi anche di scenografia e direzione artistica: quanto è importante per te avere un controllo visivo totale sul progetto? Ti senti più regista o più “costruttore di mondi”?
Mi sento decisamente un costruttore di mondi. Il controllo visivo per me è fondamentale perché ogni dettaglio comunica qualcosa. Non riesco a separare l’immagine dalla regia, perché tutto fa parte della stessa visione. La scenografia non è solo sfondo: è parte integrante del racconto, è emozione visiva.
Quando scrivi una sceneggiatura, da cosa parti: un’immagine, un’emozione, un luogo? Hai un rituale o un processo creativo che segui?
Quasi sempre parto da un’immagine, un’inquadratura mentale, qualcosa che mi colpisce e che non riesco a scrollarmi di dosso. Poi arriva l’emozione, il “perché” di quell’immagine. A volte è un luogo che mi parla prima ancora di avere una trama. Il mio processo è molto istintivo, ma poi si struttura man mano. Il mio rituale è il silenzio: scrivo solo quando sento che sto per esplodere se non lo faccio.
Cosa speri che resti nel pubblico dopo aver visto un tuo lavoro? C’è un messaggio o un’emozione che desideri arrivi sempre?
Spero resti una domanda. Non voglio dare risposte, voglio creare riflessioni. Se qualcuno, dopo un mio film, si ferma anche solo un attimo a pensare, a ricordare, a sentire… allora ho fatto il mio dovere. L’emozione che voglio lasciare è inquietudine positiva: quella che ti muove, ti smuove, ti porta a cercare qualcosa in più.
Se potessi parlare al Samuel adolescente, cosa gli diresti oggi riguardo all’arte, alla fatica, ai sogni?
Gli direi di non smettere mai, anche quando tutto sembra inutile. Che la fatica fa parte del gioco, che i sogni vanno difesi con i denti, anche quando sei l’unico a crederci. E che un giorno, tutte quelle notti insonni avranno un senso. Che la sua voce, anche se fragile, merita di essere ascoltata.
Hai un progetto futuro che custodisci nel cassetto? Un genere o una storia che ancora non hai raccontato ma che senti urgente dentro di te?
Sì, ho un progetto che mi gira in testa da un po’. Rimane sempre nell’ambito dell’orrore, ma questa volta in modo più realistico, più crudo. Mi piacerebbe raccontare una storia che parli della violenza—quella vera—quella che viviamo ogni giorno, troppo spesso nascosta o ignorata. Parlo di femminicidi, di abusi, ma anche di violenza maschile taciuta, sommersa, sistemica. Anche questo è orrore, forse il più spaventoso, perché non ha bisogno di mostri inventati: li abbiamo già intorno. È un tema che sento urgente, necessario. Ma chissà… non voglio fare spoiler.



