FABIO BAGNATO – A3 APULIA PROJECT

FABIO BAGNATO – A3 APULIA PROJECT

Fabio è autore, compositore e chitarrista, nonché ideatore e responsabile del gruppo musicale A3 Apulia Project, formazione che si distingue per un originale mix di musica mediterranea ed etno-folk d’autore. Specializzato nello studio e nella diffusione della chitarra battente, strumento tipico del Sud Italia, Bagnato guida un progetto musicale che unisce tradizione e contemporaneità, celebrando le radici etniche del Mediterraneo attraverso una ricerca sonora intensa e poetica. Sotto la sua direzione, il gruppo ha pubblicato diversi lavori discografici, tra cui i due album di successo “Odysseia” e “MUREX”, prodotti dalla Compagnia Nuove Indye di Paolo Dossena. La musica degli A3 Apulia Project è stata protagonista in numerosi teatri e festival italiani e internazionali, affermandosi come ponte tra culture diverse e memoria collettiva, con uno sguardo critico sull’attualità. Nel 2025 esce il singolo “Kairós”, ulteriore tassello di un percorso artistico coerente e appassionato. Fabio Bagnato continua a portare in scena uno stile personale e riconoscibile, dove la passione per la propria terra, la dimensione del viaggio e l’impegno culturale si fondono in un racconto musicale vibrante, profondamente radicato nel Sud e aperto al mondo.

A3 Apulia Project è un nome evocativo, che richiama radici e strade. Come nasce l’idea di questo progetto e cosa rappresenta per te?

Il nome A3 Apulia Project nasce quasi come un’intuizione poetica, ma affonda le sue radici in una riflessione profonda sul concetto di appartenenza e di transito. La sigla “A3” rimanda immediatamente all’autostrada che collega Napoli a Reggio Calabria, un’arteria storica del Sud, teatro di viaggi infiniti, migrazioni, ritorni, fughe. È una linea che unisce e separa, come spesso succede nei territori meridionali, sospesi tra identità e trasformazione. “Apulia”, invece, è la nostra terra, la Puglia: una terra che amiamo visceralmente, con la sua luce tagliente, le sue contraddizioni, le sue ferite mai completamente rimarginate. Questo progetto per tutti noi rappresenta la possibilità di raccontare quel Sud complesso, non oleografico, ma vivo e stratificato. È un atto creativo ma anche un gesto politico, perché scegliere di partire da qui e restare fedeli a una certa visione del mondo significa anche scegliere da che parte stare.

La chitarra battente è uno strumento tradizionale spesso dimenticato. Cosa ti ha spinto a riportarla al centro del tuo percorso artistico?

La chitarra battente è entrata nella mia vita come un richiamo misterioso, quasi fosse lei a scegliere me. L’ho incontrata per la prima volta tra le note intense della Nuova Compagnia di Canto Popolare e nelle atmosfere di “Musicante” di Pino Daniele. In quelle corde ho subito riconosciuto qualcosa di profondo: un suono che parlava di radici antiche, ma che vibrava forte nel presente. La mia prima chitarra battente l’ho acquistata a Bisignano, dal liutaio Costantino De Bonis, durante un viaggio in Calabria con mio fratello Walter, compagno d’anima e cofondatore del progetto. È uno strumento che non cerca di piacere: ha una voce stridula, irregolare e proprio per questo mi ha affascinato. Portarla al centro del mio percorso è stato come riaprire una porta su un’eredità sonora sommersa. Nella battente ho ritrovato un senso di radicamento, ma anche una grande libertà espressiva. È uno strumento che ti obbliga all’ascolto, alla pazienza, alla dedizione. Per me è diventata una compagna di viaggio, un’estensione del corpo e della voce, con cui posso raccontare le storie che porto dentro.

Nei tuoi brani si intrecciano musica, storia e critica sociale. Quanto è importante, per te, che la musica sia anche uno strumento di consapevolezza?

Per me è essenziale. Non riesco a concepire la musica come semplice intrattenimento, anche se ovviamente ha il diritto e la forza di esserlo. Ma nel mio percorso sento il bisogno profondo che ogni nota, ogni parola, ogni arrangiamento siano portatori di senso. Viviamo tempi in cui l’informazione è frammentata, spesso superficiale, e l’arte può avere il compito di restituire complessità, di far emergere storie marginali, dimenticate, invisibili. La musica può diventare uno strumento di consapevolezza, non tanto per dare risposte, quanto per porre domande scomode, per smuovere coscienze. Nei miei brani cerco di intrecciare il suono con la memoria, la denuncia con la poesia. È un equilibrio delicato, ma credo che l’arte abbia una responsabilità: quella di guardare il mondo e restituirlo, anche nelle sue crepe. In questo senso, il lascito di Fabrizio De André è per me una bussola. La sua capacità di dare voce agli ultimi, di raccontare l’umano con una sincerità disarmante e con una lingua che univa letteratura e strada, continua a ispirarmi profondamente. De André ha dimostrato che la canzone può essere un atto politico, etico, poetico. E mi piace pensare che, nel mio piccolo, anche io possa percorrere quella strada.

“MUREX” e “Odysseia” sono titoli che rimandano al mito, al viaggio, al mare. Quanto contano i simboli nella tua scrittura musicale?

I simboli sono fondamentali nella mia scrittura. In particolare, MUREX è un titolo che nasce da un’immagine fortemente legata alla mia terra: i muretti a secco pugliesi. Quelle linee di pietra, costruite a mano senza cemento, sono architetture fragili eppure resistenti, che segnano il paesaggio e raccontano di fatica, di cura, di confini valicabili. Nel titolo abbiam voluto giocare con l’assonanza tra “muretti” e “Murex”, evocando un’idea concettuale di strade mediterranee, percorsi fatti non solo di luoghi fisici, ma di memoria, di incontri, di stratificazioni culturali. MUREX è dunque un viaggio tra le pietre e il mare, tra i gesti antichi dei contadini e l’eco del cammino contemporaneo. È un simbolo di passaggio, di resistenza e di bellezza nascosta, come quei sentieri che attraversano il Mediterraneo e uniscono sponde che si credono lontane. A rendere questo viaggio ancora più significativo è stata la fortuna di poterlo realizzare insieme a Compagnia Nuove Indye di Paolo Dossena, una realtà che ha creduto nella forza di questo progetto, accompagnandolo con sensibilità e visione. Lavorare con loro ha dato ulteriore profondità e coerenza a questa ricerca musicale e simbolica.

Kairós, il tuo ultimo singolo, richiama il “tempo opportuno” nella filosofia greca. È un invito a cogliere un cambiamento? O ha un valore più personale?

Kairós nasce da un’esigenza personale, ma si apre anche a una dimensione più ampia, quasi collettiva. È quel momento sospeso in cui si avverte che qualcosa sta per cambiare e che bisogna essere presenti, pronti ad accoglierlo. Nella filosofia greca è il tempo qualitativo, quello in cui accade davvero qualcosa e mi sembrava perfetto per raccontare una fase di passaggio, di ricerca. Ho scritto questo brano in un momento di svolta silenzioso ma profondo. Ma più lo lavoravo, più mi accorgevo che quel senso di attesa e di scelta riguarda molti di noi, soprattutto in tempi incerti come questi. Dal punto di vista musicale, il violino di Marco Sicca, che ha registrato il tema centrale, ha dato profondità e movimento al brano, accompagnandolo in questo equilibrio tra quiete e slancio. Kairós è diventato così un invito ad ascoltarsi, a riconoscere il proprio tempo giusto, senza rincorrerlo ma lasciandosi attraversare.

Nel tuo lavoro emerge una forte connessione con il Sud, ma anche una visione universale. Come riesci a far convivere radici e orizzonti?

Questa è la mia sfida quotidiana. Il Sud per me è molto più di un luogo geografico: è un orizzonte emotivo, una lente attraverso cui guardare il mondo. Amo raccontarlo perché sento che ha ancora molto da dire, perché è pieno di energie, contraddizioni, culture stratificate. Ma allo stesso tempo cerco sempre di non chiudermi nel localismo. Le radici, se coltivate bene, non ti inchiodano: ti permettono di andare lontano, di dialogare con altre culture, di farti comprendere anche da chi viene da un’altra parte del mondo. Nella mia musica cerco questo equilibrio: partire dal dialetto, dai ritmi tradizionali, dai paesaggi sonori del Mediterraneo, ma aprirli a sonorità contemporanee, a narrazioni globali. Credo che l’autenticità stia proprio lì: nella capacità di essere fedeli a sé stessi, parlando però un linguaggio che tutti possano sentire come proprio.

Durante le tue esibizioni dal vivo, che tipo di esperienza cerchi di offrire al pubblico? Cosa vuoi che si porti via chi ascolta la tua musica?

Quando saliamo sul palco cerchiamo di creare un altro spazio, un tempo sospeso in cui chi ascolta possa sentirsi accolto, visto, coinvolto. Non ci interessa la “perfezione tecnica” fine a sé stessa: quello che ci guida è il desiderio di costruire un viaggio condiviso, un rito in cui si possa ridere, emozionarsi, ballare e riflettere, tutti insieme. Con Walter Bagnato alle tastiere, Francesco Rossini al basso e Giacomo De Nicolo alla batteria, abbiamo trovato un equilibrio umano e musicale che ci permette di entrare in sintonia profonda, di ascoltarci davvero sul palco, e questo arriva anche a chi ci ascolta. Il nostro obiettivo è che il pubblico esca a fine concerto con qualcosa di acceso dentro. Può essere una melodia che torna in mente, una frase che risuona, o anche solo una sensazione difficile da spiegare. Cerchiamo sempre di creare una dimensione intima, anche quando il luogo è grande: vogliamo che la mia musica arrivi non solo alle orecchie, ma al cuore e alla pancia.

Che ruolo ha la ricerca musicale nella tua produzione? Quanto spazio lasci all’improvvisazione e quanto alla struttura?

La ricerca musicale è al centro di tutto quello che facciamo, ma non è mai scollegata dal suono che nasce nel momento. L’improvvisazione per noi non è un’aggiunta, è una chiave di lettura del mondo: ci permette di restare aperti, in ascolto, di reagire a ciò che accade dentro e fuori dal palco. Nei brani esiste una struttura, certo, ma è sempre elastica. È come una mappa che ci orienta, ma che non ci impedisce di deviare, esplorare, rischiare. Ogni concerto è diverso, perché nasce dal dialogo tra il sottoscritto, Walter Bagnato, Francesco Rossini e Giacomo De Nicolo. Spesso sono proprio gli spazi lasciati aperti a generare i momenti più intensi. Lavoriamo moltissimo sull’ascolto reciproco, sulla fiducia, sulla libertà di sorprendersi. Questo ci permette di tenere la musica in movimento, viva, in continua evoluzione. La ricerca sta anche lì: nel non ripetersi mai, nel lasciare che ogni nota porti dentro un margine di possibilità.

Se dovessi raccontare la tua musica con tre parole soltanto, quali sceglieresti?

Radicata. Aperta. Rivoluzionaria. Radicata, perché affonda nelle tradizioni, nei suoni e nei paesaggi del Sud, con un forte legame alla memoria e alla terra. Aperta, perché è inclusiva, in dialogo con altri linguaggi, culture e sensibilità, senza mai chiudersi in un solo stile. Rivoluzionaria, perché la musica ha il potere di cambiare, evolvere, stimolare riflessioni e sentimenti, portando chi l’ascolta a un nuovo modo di vedere o sentire le cose.

Stai già lavorando a nuovi brani o progetti? Ci puoi dare qualche anticipazione?

Un artista è sempre in movimento, tra registrazioni, ascolti e nuove idee, ma al momento ciò che mi preme davvero è far ascoltare Kairós il più possibile. Ogni brano ha bisogno di essere “sostenuto”, di crescere un po sotto i riflettori, di essere vissuto sul palco, prima di poter essere lasciato andare. È come un figlio che ha bisogno di tempo e attenzione prima di camminare da solo. In ogni caso, ci sono sempre nuove idee che fermentano e il 25 giugno saremo in concerto al Folkest, un festival storico in Friuli Venezia Giulia. È un’opportunità per far conoscere il nostro progetto a un pubblico nuovo e non vediamo l’ora di salire sul palco!

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