GIULIA BERGAMIN

GIULIA BERGAMIN

Lya, all’anagrafe Giulia Bergamin, è un’artista veneta classe 1990, ma preferisce essere conosciuta con il suo nome d’arte: più essenziale, più libero, più vero. Nata sotto il segno dello Scorpione, porta con sé un’intensità viscerale e una dolcezza che si rivela solo a chi sa guardare oltre. Il suo primo incontro con l’arte avviene da bambina, quasi per caso, davanti ai bozzetti di moda disegnati dalla cugina di una compagna di scuola. Da quel momento, senza ancora saperlo, ha scelto la sua strada. Frequenta il Liceo Artistico, poi l’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove si laurea in pittura. Ma Giulia, o meglio Lya, sa che l’arte non si ferma a un voto o a un titolo: è fame, umiltà, scoperta. Dopo un periodo di pausa creativo, nel 2019 – nel pieno silenzio del mondo durante la pandemia – torna a disegnare. Riparte dal bianco e nero, dalla matita, dal gesto semplice e sincero. Ritrova il colore, i pastelli e infine scopre la pirografia, un’antica tecnica che unisce fuoco, pazienza e incisione, trasformandosi per lei in una seconda pelle. Negli anni inizia a realizzare ritratti su commissione: volti tratti da fotografie che restituisce come frammenti d’anima. Non sempre accetta denaro, perché per lei il valore di un’opera si misura nello stupore silenzioso di chi la riceve. Curiosa e sempre affamata di novità, si avvicina alla grafica digitale e la mette al servizio di una delle sue grandi passioni: gli animali. Collabora con l’associazione “I Gatti di Osvaldo”, occupandosi della grafica e della comunicazione social, contribuendo così in modo concreto attraverso la sua arte. Lya è convinta che il suo cammino sia appena cominciato. Finché avrà occhi per vedere e mani per creare, continuerà a raccontare il mondo a modo suo. Perché l’arte, per lei, è la forma più sincera di esistenza.

Ricordi il momento esatto in cui hai sentito che l’arte sarebbe stata parte della tua identità? Cosa hai provato davanti a quei bozzetti da bambina?

Sì, ricordo esattamente il momento in cui l’arte è entrata a far parte di me, come una scintilla che accende qualcosa che non si spegnerà più. Avevo nove anni, ero a casa di una compagna delle elementari, e c’era sua cugina che stava preparando dei bozzetti per la scuola di moda. Non dimenticherò mai come muoveva la mano sul foglio, con una naturalezza incantata, come se stesse accarezzando la carta. Guardavo affascinata la danza dei colori, la precisione con cui distribuiva ogni tratto… ed è stato lì che ho sentito nascere una voglia irrefrenabile di disegnare. Tornata a casa, ho afferrato un foglio e una matita e ho iniziato a riprodurre quella figura stilizzata, quella modella immaginaria che avrebbe indossato i miei primi abiti disegnati. Non volevo diventare stilista, no. Volevo solo imparare a disegnare, a dare vita a quel mondo che avevo appena scoperto. Era come se qualcosa, dentro di me, avesse finalmente trovato la sua forma.

Cosa ti ha insegnato il tuo percorso accademico all’Accademia di Belle Arti e cosa, invece, hai dovuto “disimparare” per trovare la tua voce autentica?

Durante il periodo dell’Accademia ero molto giovane. Avevo voglia di vivere, di fare esperienze, e questo ha fatto sì che non mi immergessi nello studio con la maturità che ho oggi. Facevo il mio dovere, prendevo ottimi voti, ma senza quella consapevolezza e quella fame di conoscenza che ora mi guidano ogni giorno. Nel 2019 ho deciso di ricominciare da capo, ripartendo dalle basi del disegno. È stata una scelta mia, spinta da un bisogno profondo di riscoprire l’arte con occhi nuovi. Ho studiato da autodidatta, osservando attentamente, guardando video, confrontandomi con persone care e talentuose. Ogni tecnica che imparavo, cercavo di farla mia, di trasformarla in qualcosa di autentico. Paradossalmente, ho imparato più negli ultimi anni che durante tutto il mio percorso accademico. E per trovare la mia voce, ho dovuto prima liberarmi da schemi rigidi e aspettative, per lasciare spazio a ciò che davvero volevo esprimere.

Dopo la pausa creativa, cosa ti ha spinta davvero a riprendere in mano la matita durante il periodo del lockdown? È stata una scelta consapevole o un’urgenza dell’anima?

Negli anni di pausa artistica la mia vita è cambiata profondamente. Mi sono sposata, ho avuto un figlio, e le mie energie si sono concentrate completamente sulla famiglia. Per un po’ ho messo da parte i miei bisogni, i miei sogni, quasi dimenticando quella parte di me.
Poi è arrivato un momento difficile, in cui ho rischiato di perdere la vita. E quando mi sono ripresa, grazie anche alla spinta e all’amore delle persone accanto a me — soprattutto di mio marito — ho sentito il bisogno di mettermi alla prova. È iniziato tutto quasi come una sfida: ‘Sei ancora capace? Sei ancora tu?’. Così ho ripreso in mano la matita. Non è stata una scelta razionale, ma un’urgenza dell’anima. Da quel momento non ho più smesso. Ogni disegno è una piccola rinascita, una sfida continua, un modo per ricordarmi chi sono davvero. Che sono viva. Che sono ancora qui. E che devo fare qualunque cosa mi renda felice.

La pirografia è una tecnica affascinante e antica. Cosa ti ha attratto di questo linguaggio “di fuoco”?

La pirografia mi ha affascinata sin da subito, forse perché somiglia molto all’arte del tatuaggio: non puoi sbagliare. Ogni segno è definitivo, e se commetti un errore rischi di compromettere tutto il lavoro. Questo la rende estremamente stimolante: richiede precisione, controllo, e al tempo stesso un tratto fluido, istintivo. Devi essere presente, concentrata, quasi in ascolto del legno che brucia sotto la punta rovente. Ricordo la prima volta che vidi una pirografia: non sapevo nemmeno cosa fosse, ma rimasi incantata. ‘Che cos’è questa meraviglia? La voglio fare anch’io.’ Così comprai un pirografo economico, provai… ma il risultato non era quello che avevo immaginato. L’ho lasciato andare. Più avanti, persone esperte in questa tecnica mi dissero che il problema non era la mano, ma lo strumento. Che avevo il tocco giusto, ma dovevo solo investire in qualcosa di migliore e continuare a provarci, senza arrendermi. Così ho fatto. Ho ricominciato, ho studiato, ho sperimentato, e col tempo sono cresciuta. Oggi la pirografia è uno dei miei punti di forza, anche se sento di avere ancora molto da imparare e perfezionare. Ma è proprio questo il bello: il fuoco non perdona, ma insegna. Ti costringe a essere vera, precisa, viva.

Come scegli i soggetti dei tuoi ritratti? Ti lasci ispirare dalla foto o senti che ogni volto ti “parla”?

Di solito non sono io a scegliere i soggetti dei miei ritratti: sono le persone che mi commissionano il lavoro a farlo. Il mio compito è quello di ricevere più fotografie possibili del soggetto e poi selezionare quella che, secondo me, riesce a trasmettere al meglio un’emozione, un’espressione autentica, qualcosa che parli davvero di quella persona o di quel momento. La scelta non è mai casuale: cerco sempre un equilibrio tra forza espressiva e qualità tecnica, perché un ritratto, per me, deve sì essere fedele, ma anche avere un’anima. Non posso inventare, non posso affidarmi alla fantasia: è il volto stesso a guidarmi, a raccontarmi la sua storia.

Ci sono segni o gesti che ricorrono nelle tue opere e che riconosci come tuoi, come una firma non scritta?

Forse non è un gesto preciso o un simbolo riconoscibile, ma credo che nelle mie opere ci sia sempre una certa intensità nello sguardo, una profondità emotiva che ritorna quasi senza volerlo. Amo catturare quello che sta oltre la superficie: un pensiero sospeso, una malinconia dolce, una forza silenziosa. Uso spesso contrasti forti, luci che tagliano il volto o il corpo, come se l’ombra fosse parte integrante del racconto. Chi guarda un mio lavoro spesso mi dice ‘si vede che l’hai fatto tu’, e forse questa è la mia vera firma: quel filo emotivo che tengo teso tra me e il soggetto, e che poi arriva dritto a chi osserva.

Hai detto che a volte non accetti denaro, ma ti nutri dello stupore di chi riceve un tuo lavoro. C’è una reazione che ricordi con particolare emozione?

Ne ricordo tante, ma una in particolare mi è rimasta nel cuore. Tra le varie cose che faccio, c’è anche quella di occuparmi degli animali come pet sitter. Qualche tempo fa, una mia cliente ha perso la sua micia di 18 anni. Era una gattina speciale, che avevo conosciuto bene: l’avevo imboccata io stessa con il cucchiaino fino a poche settimane prima della sua partenza, pur di farla mangiare. Quando la sua umana mi ha chiesto un ritratto per onorarla, non ho avuto dubbi: gliel’ho regalato. Era troppo forte il legame, troppo profonda la dolcezza che avevo visto tra loro, e tra me e quella creatura. La sua reazione è stata indescrivibile. Piangeva, ma non solo per il dolore: c’erano la nostalgia, lo stupore, la gratitudine, l’amore. Era un vortice di emozioni pure, sincere, che mi hanno travolta. Mi ha abbracciata e mi ha detto: ‘Giulia, tu non sei una persona normale’. E non l’ho sentito come un insulto, ma come il complimento più bello del mondo. Perché in quel momento, con quel ritratto, ero riuscita a restituirle un frammento d’amore. E quello, credimi, vale più di qualsiasi pagamento.

Secondo te, l’arte può guarire? In che modo ti ha guarita, se lo ha fatto?

Assolutamente sì, l’arte può guarire. E credo che in un certo senso abbia guarito anche me.
Attraverso l’arte riesco a esprimere cose che con le parole non saprei dire. A volte è difficile parlare apertamente, soprattutto di ciò che è più intimo, per pudore, per paura del giudizio, o semplicemente perché ci si sente costretti a indossare una maschera davanti a chi non ha voglia o tempo di vedere davvero chi sei. Con un disegno o una pennellata posso dire tutto: la rabbia, il dolore, la fragilità, ma anche la meraviglia, l’amore e la voglia di rinascere. Per me l’arte è una valvola di sfogo, un modo per tirare fuori ciò che pesa dentro, guardarlo da fuori, capirlo, e magari — se non puoi risolverlo — almeno trasformarlo. È un processo di guarigione profondo, che tocca la psiche, l’anima e anche il corpo. Perché anche solo dare forma a un’emozione è già un passo verso la liberazione.

Cosa significa per te restituire un “frammento d’anima” attraverso il ritratto?

In realtà non restituisco: io dono un frammento della mia anima. Ogni volta che creo un ritratto, ci metto così tanto amore che sento di dare vita a qualcosa. È come se quell’immagine non fosse solo un disegno, ma una creatura, un’essenza che prende forma.
Il legame diventa ancora più profondo se conosco il soggetto: una persona, un animale… qualcuno con cui ho condiviso emozioni. In quel caso, dentro al ritratto non c’è solo una parte di me, ma anche una parte del ricordo, del legame, della storia vissuta. Come con la gattina che avevo conosciuto e accudito: nel suo ritratto c’è lei, ci sono io, c’è quel tempo insieme. È come se non se ne fosse mai andata, perché in quel frammento d’arte continua a esistere. Ecco perché dico che le mie opere sono cariche di sentimento: non è solo tecnica, è cuore, è anima, è verità. Non lo dico solo io… me lo dicono anche gli occhi di chi le guarda.

Il tuo amore per gli animali si intreccia con la tua arte nella collaborazione con “I Gatti di Osvaldo”. Che tipo di energia creativa ti restituisce questo impegno?

Più che energia creativa, per me è un vero nutrimento dell’anima. Quando fai qualcosa a titolo gratuito per una causa che ti sta profondamente a cuore, senti che stai contribuendo a qualcosa di buono, e questo ti fa stare bene. Ti fa sentire utile, parte attiva di un cambiamento, e ti ricorda che anche un piccolo gesto può avere un grande impatto. Con “I Gatti di Osvaldo” non mi occupo solo della parte grafica, ma gestisco anche i social e partecipo concretamente alle raccolte cibo e fondi. È un impegno che è cresciuto con me: da semplice volontaria, sono diventata una presenza attiva, e sogno un giorno di poter fare anche stalli, fare da balia ai cuccioli o gestire le adozioni. Sono solo all’inizio, lo so, ma ho tanta voglia di imparare. Quello che è nato come un gesto d’amore per gli animali si è trasformato anche in un modo per mettere la mia arte al servizio di una causa. Scoprire che potevo essere d’aiuto anche così, con la mia creatività, mi ha riempito di gioia. Mi fa sentire parte di qualcosa, essenziale forse è una parola grande, ma mi sento davvero nel posto giusto. E questo, per me, vale tantissimo.

Pensi che il mondo animale e naturale possa essere un’ispirazione anche per la tua produzione artistica futura?

Assolutamente sì. Il mondo animale e naturale è già da tempo fonte di ispirazione per me, sia a livello emotivo che visivo. C’è qualcosa nella spontaneità degli animali, nella loro purezza, nei loro sguardi, che riesce a toccare corde profonde dentro di me. Così come la natura, che è perfetta anche nella sua imperfezione: i rami contorti, le venature di una foglia, le texture di una corteccia… sono dettagli che mi affascinano e che sento già vicini al mio linguaggio artistico. Non escludo, anzi, mi auguro, che in futuro tutto questo diventi sempre più parte del mio lavoro. Magari integrandolo anche in maniera più simbolica o onirica, creando un ponte tra realtà e visione. Mi piace l’idea di un’arte che sappia raccontare anche il mondo naturale, e che possa sensibilizzare, emozionare, creare connessioni profonde tra chi guarda e ciò che viene rappresentato.

Ti presenti al mondo come Lya. Cosa racchiude per te questo nome e perché senti che è più vero del tuo nome anagrafico?

Lya è il nome che ho scelto io. Non mi è mai piaciuto essere chiamata con il mio nome anagrafico, forse perché non l’ho scelto, non mi rispecchia davvero. Nella mia vita amici, parenti, persone vicine mi hanno sempre dato mille soprannomi, ma nessuno mi è rimasto dentro come Lya. Questo nome è nato in un momento particolare della mia vita: dopo il divorzio dei miei genitori, mi sono trasferita con mia madre a Busto Arsizio, in provincia di Varese. Ero in quella fase fragile e intensa dell’adolescenza, in cui tutto si plasma, si forma, si cerca. Lì ho stretto amicizie profonde, sincere, e proprio loro, un giorno, decisero che tutti quei soprannomi “classici” come Giù, Giulietta o Giuli non bastavano più. Volevano qualcosa di nuovo, di nostro. Così cominciarono a chiamarmi Lia, semplice e diverso. Io, come faccio spesso, l’ho fatto mio del tutto, cambiando una sola lettera: è diventato Lya, con la Y. E da allora non mi ha più lasciata. Lya per me è più di un nome: è identità, è rinascita, è libertà. È la parte mia più vera, più creativa, più emotiva. È quella che disegna, che sente, che si racconta senza filtri. È quella che ho scelto, e che oggi sento davvero mia.

Hai mai pensato di raccogliere i tuoi lavori, le tue parole e le tue riflessioni in un progetto editoriale o espositivo personale?

Sì, ci ho pensato, ed è qualcosa che in futuro mi piacerebbe sicuramente fare. Per molto tempo, ho avuto la sensazione che la mia arte fosse qualcosa di intimo, di personale, quasi come una conversazione silenziosa tra me e chi la guarda, ma con il tempo sono venuta a rendermi conto che quello che faccio può anche essere condiviso. A volte, infatti, mi sorprendo a pensare che sarebbe bello raccogliere i miei lavori in un libro o in un’esposizione, per raccontare non solo l’evoluzione artistica, ma anche il mio percorso interiore, le emozioni e le riflessioni che li accompagnano. L’idea di un progetto editoriale o espositivo mi affascina molto perché mi permetterebbe di condividere con gli altri non solo il risultato visivo, ma anche tutto il processo emotivo e creativo che c’è dietro. In fondo, ogni opera è un frammento di me, ed è giusto che questa parte della mia anima trovi il suo spazio nel mondo. Un giorno, quando sentirò che è il momento giusto e che ho abbastanza storie da raccontare, sicuramente proverò a dare vita a qualcosa di tangibile, un racconto visivo che unisca le immagini e le parole, come un’opera completa che parla di chi sono e di quello che ho vissuto. Per ora, però, continuo a coltivare la mia passione, lasciando che la creatività segua il suo corso, ma l’idea di raccogliere tutto in un unico progetto non è mai lontana dalla mia mente.


Come immagini il tuo cammino artistico nei prossimi anni? C’è una nuova tecnica o un materiale che ti incuriosisce e che vorresti esplorare?

Il tatuaggio è una tecnica che mi affascina molto e che mi piacerebbe imparare. È una sfida che richiede grande responsabilità, perché non si lavora su una tela o un foglio, ma su una persona. L’idea di sbagliare mi crea un po’ di ansia, ma allo stesso tempo l’opportunità di creare qualcosa di unico e permanente mi motiva a mettermi alla prova. Oltre a questo, vorrei anche riprendere la pittura a olio e perfezionarmi in quella tecnica, che trovo davvero affascinante. Sono sempre aperta a nuove esperienze: ogni volta che vedo qualcosa che mi ispira, mi dico: “Se l’ha fatto lui, posso provarci anch’io”. E così mi metto alla prova, curiosa di scoprire dove mi porteranno questi nuovi percorsi.

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