Appassionato di cinema fin dall’infanzia, si avvicina alle arti performative mosso dal desiderio di esprimere la propria visione del mondo e trovare una connessione autentica con il lavoro degli altri. Durante la crisi del Covid-19, mentre studia recitazione, scopre una nuova vocazione: quella di produttore cinematografico. L’incontro con un giovane regista e la realizzazione del cortometraggio #Gaelle rappresentano la scintilla che lo porta a volersi formare per conoscere ogni fase della creazione di un film. La sua visione creativa nasce sempre in dialogo con il regista, sviluppandosi attraverso un’attenta analisi delle sceneggiature e un’intensa fase di brainstorming. Crede fortemente nella libertà artistica all’interno dei limiti produttivi, sostenendo l’equilibrio tra immaginazione e concretezza grazie a un lavoro di squadra basato su fiducia e professionalità. L’innovazione tecnologica, in particolare l’intelligenza artificiale, è per lui uno strumento fondamentale per ottimizzare i processi creativi senza mai sostituire il tocco umano. Ammiratore di studi come A24 e NEON, si ispira a modelli produttivi capaci di unire coraggio artistico e visione strategica. Nel suo lavoro pone grande attenzione al linguaggio visivo e sonoro, costruito in stretta sintonia con i registi, e considera il dettaglio e la complessità elementi indispensabili per un cinema che sia profondo ma accessibile. Ogni progetto è per lui un atto di servizio verso il pubblico, un’avventura umana e una manifestazione di visione condivisa. Convinto che la tecnologia non possa sostituire l’autenticità dell’esperienza cinematografica, immagina il futuro come un continuo equilibrio tra innovazione e radici artigianali. Se potesse realizzare un sogno senza limiti, creerebbe un epico film fantasy ispirato a Sandokan, con un grande set galleggiante tra le meraviglie naturali della Costiera Amalfitana: una lettera d’amore al cinema di avventura e ai grandi racconti senza tempo.
Il tuo percorso parte dallo studio delle lingue e dalla recitazione: cosa ti ha spinto, inizialmente, verso il mondo delle arti performative?
A dire il vero, non sono esattamente sicuro di cosa mi abbia portato per primo verso le arti performative. Ricordo però chiaramente la mia passione per il cinema, che mi accompagna da sempre. Fin da bambino ho sentito un profondo bisogno di esprimere la mia visione del mondo e di trovare risonanza emotiva e personale nel lavoro degli altri. È questa fascinazione che mi ha sempre attratto.
Quando hai capito che la scena non ti bastava più, e che volevi conoscere anche il “prima, il dopo, il dietro le quinte”?
L’ho capito durante la crisi del Covid-19. All’epoca ero ancora studente in una scuola di recitazione. Verso la fine del percorso ho incontrato una persona che sarebbe diventata non solo un amico, ma anche il regista del mio primo cortometraggio, #Gaelle. Quell’incontro ha risvegliato in me una nuova passione: il bisogno di creare, comprendere e prendere in mano l’intero processo cinematografico, dall’inizio alla fine.
Qual è stato il momento, o l’incontro, che ha segnato la svolta verso il cinema come organismo complesso da costruire, più che da abitare?
Come ho accennato prima, l’incontro con quel regista è stato decisivo. Produrre #Gaelle è stata una rivelazione. All’epoca non avevo ancora le competenze tecniche che ho oggi, ma tutto è andato sorprendentemente bene. Dopo quella settimana di riprese, ho capito che, per andare oltre, avrei dovuto formarmi seriamente per diventare un vero produttore cinematografico. L’amore per la recitazione e il cinema non bastava più.
Nel testo si parla di te come di uno “scultore di possibilità”: come nasce e si struttura, per te, una visione creativa?
La mia visione creativa si sviluppa sempre in dialogo con quella del regista. Inizio analizzando la sceneggiatura così com’è, poi entro in una lunga fase di brainstorming per dare forma a ciò che potrebbe diventare un film solido. Nei cortometraggi è essenziale trovare il giusto equilibrio tra produzione e regia.
Come riesci a tenere insieme la libertà artistica e la precisione produttiva senza che una soffochi l’altra?
Ho la fortuna di lavorare con team tecnici e artistici molto professionali. Anche quando le visioni artistiche divergono, condividiamo la stessa ambizione: realizzare il miglior film possibile. Lascio molta libertà creativa, finché rientra nei limiti del budget e delle esigenze produttive.
Qual è il tuo processo quando inizi un nuovo progetto? Parti da un’immagine, da un’emozione, da una tecnologia… o da altro ancora?
Dipende sempre dal tipo di progetto e dalla strategia che voglio perseguire. Il denominatore comune è una fase di brainstorming molto intensa. Lavoro a stretto contatto con il regista per analizzare l’origine del progetto, il che ci aiuta a orientare le fasi successive. Per esempio, nel mio attuale secondo film, una scena chiave in un ristorante costituisce la spina dorsale narrativa. Analizziamo i riferimenti del regista, valutiamo le necessità tecniche, pianifichiamo la troupe, definiamo le aspettative per gli attori e, soprattutto, determiniamo l’impatto emotivo che vogliamo creare sul pubblico.
Blockchain, Web3, AI generativa: come scegli quali strumenti tecnologici integrare nei tuoi lavori?
Oggi l’intelligenza artificiale è diventata uno strumento essenziale nel mio campo. Integro diverse tecnologie soprattutto per ottimizzare il flusso di lavoro: agenti AI in pre- e post-produzione, strumenti come Runway, Kling AI, ElevenLabs o Suno AI. Servono ad aggiungere dettagli artistici e a migliorare l’efficienza, senza mai sostituire la creatività umana.
Pensi che l’intelligenza artificiale possa diventare una vera compagna creativa, o deve restare un’estensione dell’umano?
Dipende da cosa intendiamo per “estensione dell’umano”. Credo che l’IA sia già onnipresente nei processi creativi—nel cinema, nella musica, nella scrittura e oltre. Nel mio caso, è indispensabile, soprattutto nella produzione di cortometraggi dove spesso i budget sono limitati. L’IA permette di ottenere risultati che le risorse umane da sole non potrebbero garantire. Per esempio, nel nostro progetto attuale abbiamo bisogno di molte transizioni complesse di camera, che riusciamo a realizzare attraverso prompt AI molto dettagliati invece di mobilitare un intero studio.
Cosa pensi della dicotomia sempre più presente tra “cinema d’autore” e “innovazione tecnologica”? È davvero una contraddizione?
È una vera sfida: un equilibrio da inventare. Credo che proprio qui risieda una grande parte del futuro del cinema: nella capacità degli autori di abbracciare criticamente la tecnologia senza diventarne vittime, continuando a essere i veri autori del loro linguaggio. Se ci pensi, è sempre stato così: i grandi autori hanno sempre integrato le innovazioni del loro tempo—Godard con il video, Coppola con il surround sound, Fincher o Cuarón con strumenti digitali avanzatissimi. L’innovazione non è il nemico della creazione personale, può esserne anzi l’estensione naturale.
I tuoi cortometraggi parlano un linguaggio nuovo, colto ma accessibile. Come costruisci questa lingua visiva e narrativa?
Come produttore, cerco sempre di fare in modo che ogni cortometraggio che sostengo sviluppi un linguaggio distintivo. Il mio ruolo è allinearmi profondamente con il regista: capire cosa vuole raccontare e come vuole mostrarlo sullo schermo. Il linguaggio visivo e sonoro del film emerge attraverso fiducia, precisione e riferimenti condivisi. Non voglio imporre uno stile, ma rivelare quello del regista e mantenerlo coerente in ogni fase della produzione.
In un panorama spesso dominato dal sensazionalismo, tu scegli la complessità e il dettaglio. Come lavori sull’equilibrio tra profondità e fruibilità?
Credo profondamente nella ricchezza della complessità e nel potere del dettaglio. Ma non cerco di controllare questo equilibrio da solo. È tutto basato sulla fiducia nel team artistico. Fin dall’inizio definiamo insieme le fondamenta del film: intenzioni, ritmo, universo. Questo lavoro preparatorio mi permette poi di concentrarmi sul flusso produttivo, sapendo che l’equilibrio artistico è in buone mani.
Ci sono riferimenti, artisti o registi, che hanno ispirato il tuo modo di raccontare? Hai parlato spesso dell’importanza del lavoro in team: che tipo di ambiente cerchi di creare con le persone che collaborano con te?
Ovviamente ho molti riferimenti artistici e cinematografici. Ma come produttore, mi ispirano di più studi e figure che sono riusciti a mantenere una visione forte—creativamente e strategicamente. Amo studi come A24 e NEON per le scelte coraggiose nei progetti e le strategie di distribuzione eccezionali. In Francia, ammiro Dimitri Rassam (Chapter 2) e Hugo Sélignac (Chi-Fou-Mi) per la loro capacità di rischiare pur restando saldi nell’industria.
Cosa significa per te “dirigere senza imporsi”? Quali sono le qualità che ritieni indispensabili per guidare un progetto?
Cerco di creare un ambiente caloroso e di supporto, in modo che le giornate di riprese, spesso lunghe ed estenuanti, non pesino sul morale della troupe. Fare un film è un lavoro duro, ma prima di tutto è un’avventura umana. Valorizzare i talenti di ogni membro del team fa parte del DNA di MONA&CO films. Per questo la nostra campagna marketing include interviste e post dedicati sia agli attori sia alla troupe tecnica.
I tuoi progetti futuri si spingono oltre lo schermo: puoi raccontarci qualcosa delle esperienze ibride e multisensoriali che stai sviluppando?
Non credo ci sia un solo modo per dirigere un progetto. Per me, “dirigere senza imporsi” significa creare un’atmosfera di fiducia. Ascolto molto, cerco di comprendere la sensibilità di ciascuno e procedo con chiarezza e gentilezza. Dare una direzione, sì, ma sempre con un sorriso, con fermezza quando serve, e con una presenza forte. Questo mix di rispetto, fiducia e responsabilità condivisa mi ha sempre aiutato a far progredire i progetti nella giusta direzione.
Se dovessi descrivere il tuo approccio al cinema in tre parole, ma senza usare termini come “arte” o “tecnologia”, cosa diresti?
Per me produrre un film è prima di tutto un atto di servizio: lo faccio per il pubblico. Il mio obiettivo è offrirgli un momento significativo, un’emozione, un’immersione. È poi un’avventura: ogni film è un viaggio umano, creativo e a volte caotico—ma è proprio questo che lo rende vivo. E infine è visione: sia quella del regista, che sostengo, sia la mia, che aiuta a strutturare e guidare il progetto nella complessità.
In un mondo in cui tutto è sempre più “digitale”, c’è qualcosa di tangibile, “reale” che ti manca del vecchio cinema, o pensi che la tecnologia abbia davvero preso il posto di tutto?
Non credo che il cinema di oggi sia poi così diverso da quello del passato. I passi fondamentali sono gli stessi: si parte da un’idea, la si sviluppa, la si produce e la si gira. La logica artigianale resta intatta. Quello che è cambiato è il modo in cui il pubblico consuma i film. Gli spettatori sono più selettivi, hanno accesso a tutto, sempre, e si aspettano di più in termini di ritmo, significato e autenticità. Ma no, non tutto è stato sostituito. Il “reale” nel cinema esiste ancora: nell’atto di creazione e nel legame che un film riesce a costruire con il pubblico.
Immagina di avere un incontro con te stesso fra dieci anni. Che cosa speri di dirti, e che cosa ti piacerebbe che il “tuo futuro” ti dicesse riguardo a come sei arrivato lì?
Gli direi che ogni momento di dubbio è valso la pena: che hanno costruito la mia resilienza, affinato le mie scelte e plasmato il mio modo di produrre. Vorrei che il mio futuro mi ricordasse il percorso, l’energia che ho investito, i sacrifici che ho fatto—e che non mi lasci mai adagiare. Questo dialogo interiore è il modo in cui continuo ad andare avanti. Perché in questa professione, conta tanto il risultato quanto la spinta.
Se potessi fare una scelta “folle” senza limiti, un progetto da realizzare con tutte le risorse del mondo, quale sarebbe e come lo realizzeresti?
Creerei un film fantasy liberamente ispirato a Sandokan di Emilio Salgari—un adattamento fedele al suo spirito di avventura, lealtà e ribellione contro l’ingiustizia. Lo ambienterei sulla Costiera Amalfitana, con un vero set galleggiante in mare, per girare epiche battaglie navali in uno scenario naturale mozzafiato. Sarebbe artigianale ma visivamente ambizioso, con navi a grandezza naturale e una narrazione immersiva. Un film in perdita, sì—ma una lettera d’amore appassionata al cinema di genere e ai grandi film epici del passato.
Intervista curata da Charlotte Madeleine Castelli



Bellissimo articolo