FRENK CATALANO, al secolo Francesco Catalano, nasce a Pisa, il 20. settembre del 1983. Si definisce un piccolo artigiano e fin da giovanissimo dimostra sensibilità e interesse verso tutto ciò che è arte. Curioso, divoratore di libri e appassionato di vinili, sono due le sue più grandi passioni, la musica e la fotografia; e dopo aver militato per più di venti primavere in diverse formazioni musicali toscane, suonando black music (dal blues al funk e dal rhythm and blues al soul) arrivando poi ad esibirsi nel 2013 sul palco del Torrita Blues, decide di dedicarsi totalmente alla fotografia, occupandosi di reportage fotografici con impronta giornalistica, raccontando storie con le immagini e diventando fotografo musicale. Ha intrapreso inoltre da più di due lustri un cammino di ricerca spirituale che lo ha portato a studiare le religioni e il misticismo. Vegetariano convinto e praticante buddhista, segue il buddhismo tibetano, quello di tradizione Mahāyāna, ma come dice Sua Santita il Dalai Lama, “le religioni sono tutte sorelle”. Collabora inoltre per un breve periodo con una importante casa editrice che si occupa della diffusione del Buddhismo Mahāyāna, curandone la parte musicale, social e podcast. Ha da poco terminato un lavoro di reportage su un rifugio per animali di ogni specie a Pisa, che si chiama Ippoasi. Un vero e proprio santuario, dove tutti gli animali possono vivere insieme liberi da torture, maltrattamenti e abusi. Attualmente porta avanti diversi progetti, uno in particolare sul mondo “Hare Krishna”, approfondendo la loro comunità, la loro storia e tradizione, raccontando con la fotografia la loro realtà. Affianca a tutto questo la fotografia di concerto ed eventi live, quasi un ritorno alle origini, ma dall’altra parte. L’esperienza musicale maturata gli permette di muoversi in un terreno conosciuto, fotografando sul palco artisti come Edoardo Leo, Ron, Paolo Fresu e tanti altri. Lo studio, la ricerca e la curiosità sono per Frenk Catalano l’essenza di un cammino stupendo da vivere immersi nel mondo dell’Arte.
Cosa ti ha spinto verso la musica e la fotografia, e come hai deciso di dedicarti completamente alla fotografia?
Da piccolo passavo molto tempo con i nonni… come tanti della mia generazione. Mio nonno materno è stato un grande appassionato di musica, soprattutto lirica. Insieme andavamo a vedere le opere, ascoltavamo dischi e devo dire che è stato propedeutico perché ha contribuito ad allenare il mio orecchio. C’era sempre musica in casa sua. Da lì allo studio dello strumento il passo è stato breve. La fotografia è arrivata poco dopo… un giorno rimasi colpito da una vecchia scatola piena di fotografie, così iniziai a sfogliarle una dopo l’altra, e trovai davvero interessante il fatto che fossero arrivate fino a me, raccontando di un tempo passato, senza bisogno di parole. Ho iniziato così a scattare anch’io, provando a raccontare le mie giornate. Un fotografo, come ci insegna Bresson, dovrebbe essere testimone del proprio tempo, raccontando quello che succede per poterlo tramandare alle generazioni future. Molte cose che sappiamo del passato, le abbiamo apprese osservando le fotografie di quel particolare momento storico, oppure studiando i dipinti, se andiamo ancora più indietro nel tempo. Ma questo è vero anche ora. Possiamo sapere quello che succede dall’altra parte del mondo in un attimo, basta postare una foto!. La forza della fotografia sta proprio nell’immagine. Può essere vista e capita da tutti, è una lingua universale.
Puoi raccontarci qualcosa della tua esperienza sul palco del Torrita Blues?
E’ stato molto emozionante! Sentivo che erano stati ripagati tanti sforzi e sacrifici. La soddisfazione più grande è stata quella di poter aprire ad un coro gospel di Whaschington DC. La loro esibizione è stata pura magia… c’era davvero qualcosa di speciale, di spirituale nell’aria. Il gospel ti eleva davvero, ti porta in alto… Il Torrita mi ha permesso di conoscere persone meravigliose e musicisti incredibili. Si respirava una bella atmosfera. Era un po’ come vivere all’interno di una comunità. E’ un festival bellissimo e fortunatamente è rimasto legato alla tradizione e alla semplicità.
Quali sono le sfide più grandi che hai affrontato nel passare dalla musica alla fotografia?
C’è una frase che ripeto spesso, forse troppo spesso, ed è questa: “ho collezionato magnifici fallimenti”. Questo già fa capire quanto all’inizio non sia stato proprio facile… musicalmente sentivo di non avercela fatta, che nonostante tutto non ero riuscito a ritagliarmi un piccolo posto dove poter coltivare il mio giardino (per citare Candido di Voltaire). I primi tempi sono stati duri, difficili da accettare. La realtà musicale era cambiata, erano cambiate le priorità di molti musicisti con cui suonavo, ma devo dire, che ero cambiato anch’io. All’inizio non fotografavo musicisti sul palco, non ci pensavo nemmeno… e ancora oggi non saprei dire il perché. All’inizio questa scelta l’ho vissuta come una sconfitta. Solo dopo ho capito che potevo puntare anche il mio obiettivo verso il palco e fare quindi pace con la mia “vita precedente” e potevo mettere in pratica molte cose che avevo imparato. Non siamo alberi, come si dice nello Zen, ma sismo in continuo movimento… i cambiamenti sono necessari e io ne ho fatti e ne sto facendo davvero tanti. Tutto alla fine si trasforma.
Come la tua esperienza musicale ha influenzato il tuo approccio alla fotografia, in particolare quella di concerti ed eventi live?
La fotografia se vogliamo è musica. Invece di usare le note si scatta una foto, cercando di cogliere l’attimo, il momento decisivo, come ci insegna Bresson. E’ sicuramente un modo diverso di comunicare, è un altro linguaggio, ma se ti ritrovi a danzare intorno alla scena che stai fotografando, allora hai fatto centro! Aver suonato per molto tempo mi ha permesso di fare esperienza sul palco, capire come ci si muove e quello che sta per succedere, tutto questo è molto utile nella fotografia musicale. Riesci ad anticipare quello che succederà. Inoltre come nella musica, anche nella fotografia, sono importanti le pause, i silenzi. Capire quando è il momento di scattare e quando invece no.
Quali sono le storie più memorabili che hai raccontato attraverso i tuoi reportage fotografici?
La fotografia come dicevo prima, è un linguaggio, e serve per comunicare, per mettere in relazione, per creare legami. Il reportage ti permette di entrare in una determinata situazione, di viverla e di condividere una determinata realtà con le persone che ne fanno parte. Si creano dei rapporti molto profondi. Non si tratta di prendere la macchina, scattare una foto e addio, ma di vivere quella realtà. Credo che questa sia la cosa più importante. Si, è questa la vera magia!
Puoi descrivere il tuo processo creativo quando lavori su un reportage fotografico?
Studio! Tanto, tanto, tanto studio! Per prima cosa bisogno studiare bene quello che si vuole raccontare, essere preparati, avere un piano di lavoro definito, altrimenti si rischia di essere dispersivi e di perdersi. Bisogna avere molto chiaro cosa vogliamo raccontare e che tipo di messaggio vogliamo mandare. Io ad esempio, dopo aver preso contatti, mi reco sul posto e spiego in modo dettagliato che tipo di lavoro vorrei fare, ma non da solo, insieme a loro. E’ un lavoro condiviso che si fa insieme e piano piano diventi parte di quel mondo, e non sei più visto come un esterno con la macchina fotografica, ma uno di loro. Si arriva ad un punto in cui nessuno fa più caso a te! Non è un lavoro di un giorno, richiede tempo, tanto tempo… anche anni. Basta guardare i lavori dei più grandi fotoreporter.
Come il tuo cammino di ricerca spirituale ha influenzato la tua arte e il tuo lavoro fotografico?
Ho sempre sentito in me il desiderio di ricerca, di capire, di andare oltre. Questo cammino è bellissimo ma anche molto complesso e difficile. I monaci dicono che è una lotta giornaliera, lo sforzo è una vera e propria jihad, per usare un termine bellissimo ma purtroppo oggi travisato e usato con una accezione errata. Arrivi a dover affrontare anche quello che non ti piace e guardarlo in faccia. Come dice Nietzsche, “quando guardi l’abisso, anche l’abisso ti guarda”. Devi mettere in discussione molte cose, ma poi inizi a comprendere, a capire… e senti che siamo tutti collegati. Questo ovviamente lo ritrovo anche nella fotografia e negli incontri che faccio. Sento proprio delle vibrazioni e mi lascio guidare. Cerco di avere sempre un atteggiamento di rispetto verso quello che vedo e che scatto, non giudico… ahimè, non siamo nati per giudicare, anche se ci piace tanto farlo!
Quali sono stati i momenti più significativi della tua ricerca spirituale e come li hai integrati nel tuo lavoro?
Credo che il momento più significativo sia stato quello di fare piano piano la mia conoscenza, di capire e comprendere il mondo che ho dentro. Ora quando incontro una persona, so che come me, è un essere millenario (io credo nel Karma e nella reincarnazione), quell’incontro è un incontro sacro. Siamo tutti esseri senzienti, tutti vogliamo essere felici e nessuno vuole soffrire. Nel Buddhismo tibetano si dice che abbiamo avuto innumerevoli mamme, così quando incontriamo una persona dobbiamo trattarla con rispetto e gentilezza, perché in passato potrebbe essere stata nostra madre. Bisognerebbe cercare di praticare la compassione e abbracciare quei valori di etica secolare… direi che questo è il mio approccio alla vita ed è lo stesso che uso nella fotografia, che è il mio linguaggio.
In che modo la tua pratica del Buddhismo tibetano ha influenzato la tua visione del mondo e la tua arte?
Nel Buddhismo tibetano siamo tutti esseri senzienti e questo ci insegna ad essere di beneficio verso tutti questi esseri e dove questo non è possibile, allora bisognerebbe evitare di danneggiarli. Come dice Sua Santità il XIV Dalai Lama, “la mia religione è molto semplice, la mia religione è la gentilezza”. La pratica buddhista, lo studio delle filosofie orientali e del misticismo, mi ha portato ad avere una visione sicuramente non “convenzionale” e di sicuro poco occidentale. Cerco quotidianamente di mettere in pratica gli insegnamento dei grandi Maestri spirituali, cercando di avanzare per quanto possibile, in questo cammino. Confesso che diventa difficile comprendere e accettare certe atrocità che si stanno consumando nel mondo… ma sono proprio questi momenti difficili che ti mettono alla prova e saggiano la tua preparazione spirituale.
Puoi parlarci della tua esperienza nel collaborare con la casa editrice che diffonde il Buddhismo Mahāyāna?
E’ stata davvero una bella esperienza. Da praticante e studioso mi sono ritrovato ad occuparmi inizialmente della parte podcast, curandone anche la musica, e successivamente di quella social con la pubblicazione di post che raccontavano la storia di grandi Maestri o erano inserite brevi citazioni, pillole di saggezza. E’ stato un periodo ricco di preziosi insegnamenti e non solo spirituali. Ho imparato molte cose che ora utilizzo nei miei canali social.
Cosa ti ha ispirato a lavorare sul reportage del rifugio per animali Ippoasi e quali sono state le esperienze più toccanti che hai vissuto lì?
Sono un vegetariano convinto e come dico spesso, non ammazzo neanche le zanzare. Sono arrivato a comprendere in natura la regola della preda e del predatore, la capisco ma non la accetto. Non riesco più a vedere nemmeno i documentari! Questo per dire che quel lavoro poteva essere solo mio, era ed è, nelle mie corde, come si dice. La prima volta che sono entrato all’Ippoasi mi sono sentito disorientato… e ho capito che non ero abituato a vedere tutti quegli animali liberi vivere insieme (mucche, pecore, capre, cavalli, asini, maiali, cinghiali, anatre, etc…), ma la normalità è quella! Non le gabbie! Ho visto l’Amore, quello vero, incondizionato, di cui tanto parlano i poeti e i mistici, quell’Amore che non chiede niente in cambio, e l’ho visto negli occhi dei volontari. La maggior parte di questi animali hanno subito maltrattamenti o erano destinati al consumo umano, e ora sono liberi e possono vivere felici. Questo è un bellissimo messaggio! Ciò che è difficile da accettare sono i racconti, come ad esempio quello dei maiali che si lanciano dal furgone che li sta portando al macello… quella voglia di vivere, che li porta a tentare la sorte… o vedere i segni dei maltrattamenti, o accettare che nonostante tutti gli sforzi, le attenzioni e facendo l’impossibile, anche in quel rifugio gli animali invecchiano e si ammalano; spesso arrivano già con una salute compromessa, ed hanno bisogno di cure per tutta la vita. Difficile raccontare la scena dei volontari che abbracciano un cavallo, mentre questo sta per lasciare il corpo, ed il suo ultimo sguardo è volto a loro, per ringraziarli di tutto quello che hanno fatto.
Quali messaggi speri di trasmettere attraverso il tuo lavoro sul rifugio per animali Ippoasi?
Il messaggio più importante è che siamo tutti esseri senzienti e dovremmo rispettare tutte le forme di vita. Questo prima di tutto per una questione etica. Sappiamo molto bene quello che succede nel mondo con gli allevamenti intensivi, le condizioni disumane, i maltrattamenti e le torture. Io sono solo un piccolo artigiano e il mio è solo un piccolissimo lavoro… ma siamo in tanti a puntare l’attenzione su quello che sta succedendo… ma come possiamo allevare una vita per poi ucciderla e mangiarla… per me è incomprensibile.
Puoi raccontarci di più sul tuo progetto riguardante il mondo “Hare Krishna” e cosa ti ha spinto ad approfondire questa comunità?
Anche con questo progetto, possiamo dire che gioco in casa. Nella mia ricerca spirituale ho studiato molto l’Induismo e i Mistici indiani, ma poi mi sono imbattuto in quelli che ormai chiamiamo “Hare Krishna”, che in realtà si dovrebbe dire “l’associazione internazionale per la coscienza di Krishna”. Ho deciso così di approfondire, recandomi in due centri, uno in Toscana in provincia di Firenze, e l’altro in Liguria, in provincia di Genova. Ho parlato molto con tutti i devoti e maestri spirituali. Inizialmente facevo domande, ma poi mi trovavo a confrontarmi con loro e a trovare punti di unione con il mio cammino spirituale e con il Buddhismo tibetano. Il progetto è sempre in corso, e vorrei cercare di analizzare tutti gli aspetti che caratterizzano questa incredibile realtà. Ho passato con loro giornate di studio, di preghiera, ho condiviso pasti e li ho seguiti per le strade mentre cantano e danzano. Devo dire che la loro energia ti avvolge, ti trasmette pace e serenità. Ovviamente c’è ancora tanto da raccontare e da capire. Comprendere quali sono le ragioni che spingono un giovane ha lasciare tutto ed entrare in questa comunità e diventare monaco, credo sia davvero una domanda molto centrale ed interessante da porsi.
Quali sono gli aspetti più interessanti della comunità Hare Krishna che hai scoperto attraverso il tuo lavoro fotografico?
Sono rimasto colpito dalla loro umanità e gentilezza. Mi hanno aperto subito le porte e fatto sentire parte di loro. E’ stato inoltre bello confrontarsi e raccontare a loro la mia esperienza. Approfondendo questo progetto mi rendo conto di quanta bellezza ci sia ancora da scoprire.
Come bilanci il tuo lavoro di reportage con la fotografia di concerti ed eventi live?
Devo dire che sono molto organizzato. Pianifico tutto, lasciandomi liberi dei giorni per eventuali imprevisti. Mi riconosco buone capacità organizzative e questo mi permette di muovermi con calma, senza affanno, un passo alla volta. Inoltre per me è fondamentale staccare e passare da un progetto ad un altro. Questo ti permette di prenderti del tempo per riflettere, rivedere alcune cose, e ritornare poi a lavorare con le idee più chiare. Non amo immergermi a capofitto in una cosa senza vedere più quello che mi succede intorno.
Quali sono stati i momenti più emozionanti che hai catturato durante i concerti ed eventi live?
In realtà devo dire che quando scatto ad un concerto sono molto concentrato. Anche se è un personaggio famoso, per me sul palco, c’è una persona, con una propria vita, con dei sentimenti, con tutte le sue vicissitudini. Devo dire che trovo davvero molto bello quando si creano rapporti e con con gli artisti si rimane in contatto, uscendo dal semplice “fotografo-musicista”. La mia è sempre una ricerca di umanità.
Come riesci a mantenere viva la tua curiosità e il tuo entusiasmo per la tua arte?
Mi reputo una persona curiosa, e questo mi ha sempre salvato. La curiosità mi ha portato a cercare, a studiare, a fare domande, a voler comprendere e capire. Insomma, mi tiene sempre in movimento. Confesso che ho bisogno di stimoli, non posso fare la stessa cosa per troppo tempo, ed è proprio qui che la curiosità mi salva!
Quali sono i tuoi prossimi progetti fotografici e cosa speri di esplorare attraverso di essi?
Come accennato prima, porterò avanti il progetto sugli “Hare Krishna”, perché c’è ancora tanto da raccontare e continuerò a fotografare eventi live. Per quanto riguarda i progetti futuri di reportage, ho alcuni lavori ancora da iniziare, ho preso contatti, ma al momento preferirei non dire niente, visto che non sono ancora iniziati. Posso però accennare che riguarderanno il sociale e tematiche abbastanza recenti.
Puoi parlarci di un momento in cui una tua fotografia ha avuto un impatto significativo su
qualcuno o su una comunità?
Non penso che questo sia successo… ma posso dire che se una persona, guardando una mia fotografia, sentisse il desiderio di approfondire e di verificare, allora credo che nel mio piccolo, con molta umiltà, riuscirei a pensare di essere stato utile, avendo contribuito con un verso… come nella poesia di Whitman.
Cosa consiglieresti a un giovane artista che vuole intraprendere un percorso simile al tuo nel mondo dell’arte e della fotografia?
Consiglierei di sicuro di essere curioso e di studiare tanto, sempre, senza fermarsi mai. Avere sempre la curiosità di scoprire, di porsi domande, interrogativi, di chiedersi il perché delle cose. E anche se spesso è difficile, direi di non mollare, di resistere e come dice Van Gogh “se senti una voce dentro di te che dice che non sei un pittore, allora, proprio allora devi dipingere e quella voce sarà messa a tacere, soltanto col lavoro”. Direi inoltre di rimanere fedele al proprio spirito, alla propria sensibilità, di difenderla e di raccontare quello che vede e che sente, con il linguaggio a lui più consono, cercando di rimanere sempre se stesso, non ricercando il consenso… lo so è difficile, ma il consenso ti porta a fare cose che esistono già, e spesso a fare compromessi mediocri, invece bisogna avere la forza di inventarsi!