GIANLUCA BARILLI

GIANLUCA BARILLI

Artista visivo, graphic designer e spirito ribelle, Gianluca Barilli – in arte NAWB (Not A Wonder Boy) – nasce nei primi anni 2000 tra writing, street art e cultura pop. Cresciuto artisticamente nel duo 2TOCLAN con lo pseudonimo Nero One, Gianluca approda a Fabrica come unico italiano selezionato nel 2005, un’esperienza che lo porta a riflettere sul significato della creatività: non una dimostrazione, ma un sentimento. Il suo stile è un mix vibrante di tratti netti, colori saturi e immaginario onirico-pop, contaminato dalla musica rock’n’roll, dalla satira, e da una generazione cresciuta a cartoni animati e fumetti. Le sue opere parlano una lingua visiva diretta, a metà tra icona e introspezione, spesso accompagnata da riferimenti letterari, simbolismi arcaici e humor tagliente. Barilli ha esposto in spazi alternativi e gallerie, dal Centro Cinema Lino Ventura al bastard store, e ha portato la sua arte su supporti inusuali come sciarpe e cappelli. Attivo anche come art director, è critico verso il culto dei social media, preferendo la sincerità dell’espressione artistica ai meccanismi di marketing. Tra i suoi progetti recenti spicca The Last Words of the Dying Man, una riflessione visiva sul concetto di verità e memoria ispirata a Quarto Potere. Con lo sguardo sempre rivolto al futuro, NAWB continua a sperimentare, lasciando che tecnica e contenuto viaggino insieme, senza mai perdere la propria autenticità.

Dal graphic design all’arte visiva: come è iniziato il tuo percorso e quali sono state le principali influenze che hanno plasmato il tuo stile distintivo?

Ciao io sono Gianluca aka Jack aka NAWB. Il mio percorso come Notawonderboy è partito nei primi anni del 2000. Prima producevo opere come artista e come writer con lo pseudonimo di Nero One, facendo parte di un duo chiamato 2TOCLAN. Cosa che non si dovrebbe dire, ma credo che ormai i reati di writing siano caduti in prescrizione.

Il tuo pseudonimo, “Notawonderboy”, è intrigante. Qual è la sua origine e cosa rappresenta per te?

Allora, lo pseudonimo di NAWB è nato da un’esperienza vissuta nel 2005, sì credo a 23 anni. Uscito dall’università di comunicazione e design (Università del Progetto – RE) fui selezionato come creativo presso Fabrica che è una residenza artistica fondata da Oliviero Toscani e Luciano Benetton. In quell’esperienza fui selezionato come unico italiano di quell’anno e mi ritrovai fra giovani creativi di tutto il mondo. Stati Uniti, Cina e via dicendo. Ogni ragazzo era entusiasta e non vedeva l’ora di dimostrare al mondo la sua valenza. Sembravano tutti dei ragazzi prodigio, dei “Wonderboy”. Fu in quel momento che decisi di identificarmi come “non un ragazzo prodigio”. Volevo riportare la creatività sul piano che più mi appartiene. Non una dimostrazione, ma un sentimento. Tradotto ignorantemente Not A Wonder Boy. Così poi la mia residenza a Fabrica durò per un anno intero.

Nel tempo, il tuo stile si è evoluto mantenendo tratti netti e colori saturi. Come è cambiata la tua estetica e quali esperienze hanno influenzato questa evoluzione?

Il mio stile si è evoluto molto lentamente, attraversando fasce stilistiche molto vicine tra loro. Sicuramente lo stile è stato influenzato dal mondo del writing, dove si ricercava la sintesi stilistica per velocizzare la realizzazione. Poche linee per descrivere concetti complessi. Poi sicuramente l’influenza di artisti legati alla street art come Keith Haring hanno accelerato la mia ricerca di linee pulite e colori netti. Tanto dialogo tra i colori che a loro volta devono descrivere emozioni, sensazioni, profondità. Quindi direi le principali influenze il writing, i tatuaggi e la street art americana degli anni 80 e oltre: Keith Haring, Kenny Scharf, Richard Hambleton, Futura 2000 via via fino a Shepard Fairey e simili.

Nei tuoi lavori spesso mescoli elementi onirici con riferimenti alla cultura pop e oggetti quotidiani. Qual è il processo creativo dietro queste combinazioni?

Il processo può nascere sia dalla simbologia che racchiude il significato, che dalla voglia di descrivere visivamente altri contenuti artistici come la musica e la letteratura. “Sarai mia” nasce da un pezzo rockabilly. “The Mariner” nasce ovviamente da Hemingway. “Mostro” nasce dalla cultura pop delle serie tv e dall’Incredibile Hulk.

Mille spunti pop, ma anche simbologie arcaiche.

Molte tue opere reinterpretano personaggi dei cartoni animati e fumetti, fondendoli con elementi reali. Qual è il significato dietro questa scelta iconografica?

Il significato è quello attingere alla cultura pop, soprattutto visiva, ma legata alla mia generazione. Noi siamo i figli dei cartoni animati e dei fumetti che ci sparavano nel cervello.

La tua passione per la musica rock’n’roll e la cultura americana è evidente in molte creazioni. In che modo la musica influenza il tuo processo creativo e quali connessioni trovi tra queste due forme d’arte?

Wow, la musica è uno dei pezzi del mio fegato. Sono cresciuto con mio padre che mi portava con se durante le stagioni di Lirica fin da bimbo. E poi tutta la cultura dei cantautori italiani: Paolo Conte docet. E allora da lì la musica ha descritto la mia strada. Così, spesso traggo ispirazione da ciò che ascolto. Come ho detto precedentemente, l’ispirazione arriva da altri contenuti artistici espressi con altre discipline.

Hai esposto in diverse sedi, tra cui LaZona del Centro Cinema Lino Ventura con “Poppettone” e il bastard store con “No One Knows”. Quali ricordi conservi di queste esperienze e come hanno influenzato il tuo percorso artistico?

Ho sempre amato esporre. In quelle occasioni le persone esprimono ciò che loro vedono nelle tue opere e ti aiutano a vedere significati che tu non avresti mai immaginato. Sono fantastiche sessioni di psicoterapi. Le esperienze più toccanti durante una serie di esposizioni nel circuito di gallerie tra Lucca e Livorno, una terra dove le persone amano interagire con gli artisti espositori.

Hai realizzato design per prodotti come sciarpe e cappelli, tra cui “TUCK FRUMP”. Come affronti la sfida di adattare la tua arte a supporti diversi e quale importanza attribuisci al merchandising nel tuo percorso professionale?

Ho avuto la fortuna di lavorare nell’abbigliamento per tanti anni e quindi so benissimo che le mie opere non nascono per finire su una maglietta. Non è il loro scopo. Ma a volte nascono opere come “TUCK FRUMP” che fanno parte di un impegno comunicativo più attivo. Quel ritratto è nato anche un po’ come satira politica sulla falsa riga de “IL MALE”. “TUCK FRUMP” infatti prende ispirazione da una copertina de “IL MALE” del 1978 dove compare un ritratto di Andreotti con le chiappe al posto della faccia. Anche se le mie opere non nascono con quello scopo saltuariamente mi dedico allo studio di qualche opera da poter riprodurre sul merch, vedi ad esempio “STOP THE HATE”.

Alcune tue opere contengono riferimenti politici e sociali. Qual è il tuo punto di vista sul ruolo dell’arte come strumento di critica?

La mia posizione è quella che secondo me si può attribuire a certa satira politica. Critica, ma non schierata. Il mio non è un mondo o bianco o nero. Abbiamo un sacco di colori. Così dev’essere l’arte, per me, nella critica. La politica lasciamola fare a chi ci specula.

In un’epoca dominata dai social media e dalla digitalizzazione, quali ritieni siano le principali sfide per un artista contemporaneo? Come utilizzi piattaforme come Instagram per promuovere il tuo lavoro e interagire con il pubblico?

Ecco un altro tema caldo. Lavoro come art director nella comunicazione anche a livello nazionale e ho avuto la fortuna di lavorare nei social media soprattutto nelle prime ore di nascita della comunicazione digitale. Io sono come il calzolaio con le scarpe rotte. Mi piace lavorare nella comunicazione digitale per gli altri, non per me. Io credo che adesso stiamo assistendo all’esplosione dello schifo mediatico portato dalla vendita di se stessi per ottenere views, like e un po’ di denaro. Ma io resto della vecchia scuola, che vuole fare arte, non contenuti da postare. Come artista e come art director sto sviluppando dei progetti sull’etica dei social media, che un po’ era cominciata con la mi opera “WASTING TIME”. Io sostanzialmente utilizzo IG come portfolio e come stimolo per produrre e sapendo benissimo come funziona questo tritacarne mediatico me ne frego dei follower, dei like e degli artisti influencer. È un mondo che capisco benissimo e che detesto.

Hai menzionato un progetto intitolato “The Last Words of the Dying Man”, ispirato a testi rock’n’roll e psychobilly. Puoi raccontarci di più su questa iniziativa e cosa ti proponi di esplorare attraverso di essa?

“The Last Words of the Dying Man” vuole riprendere la tematica trattata da Orson Wells in Quarto Potere, così l’uomo che sta morendo rappresenta in Rosebud la sua più grande ferita, dalla quale si è sviluppato il suo genio, ma anche l’ultimo sprazzo di trasparenza della sua vita.

Quali sono i tuoi obiettivi futuri e come vedi il tuo percorso artistico nei prossimi anni? Ci sono nuove tecniche o tematiche che desideri approfondire?

Nei prossimi mi aspetta un percorso di metabolizzazione di un’esperienza importante vissuta in questi anni. Spero di riuscire ad interpretarla e svilupparla negli anni, ma senza fretta. E allo stesso tempo cercherò di sperimentare la tecnica, che per me è sempre stata al servizio del significato.

Qual è la tua visione del ruolo del curatore nello sviluppo del percorso di un artista? Ritieni che sia una figura essenziale per guidare strategie e scelte? Hai mai avuto un curatore di riferimento con cui hai collaborato o a cui ti sei affidato per confrontarti sul tuo lavoro?

Sì, ho collaborato per anni con un curatore che però, come è il mio approccio all’arte, non ha mai spinto nella totalità la mia ricerca. La considero una figura molto utile ad avere un occhio esterno sulla propria concentrazione egocentrica. Spesso siamo troppo concentrati su noi stessi.

Che consiglio daresti ai giovani artisti che desiderano emergere nel panorama dell’arte contemporanea?

Io credo che chi è un artista non abbia la necessità di seguire dei consigli, l’arte ti arriva addosso. Poi emergere si può considerare come uno scopo? Non saprei, ci vorrei pensare ancora un po’.

Dove possiamo seguire i tuoi prossimi progetti e come il pubblico può interagire con te e le tue opere?

Potete seguire i miei progressi ovviamente sui fantastici social network che tutti amiamo. Lì infatti potete comunicare con me, avere chiarimenti sulle mie opere e commissionare. Io adoro essere commissionato.

A cura di Charlotte Madeleine Castelli

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