IRENE GIANESELLI (1997) è Ph. D. Candidate dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro in Scienze delle Relazioni Umane. Dal 2023 è tra i membri di ESREA – Transformative and Emancipatory Adult Education Network. Si è diplomata in pianoforte al Conservatorio di Bari dopo la Laurea Magistrale in Scienze dello Spettacolo e della produzione multimediale (UniBa). È giornalista, critica cinematografica del SNCCI, regista e attrice. I suoi cortometraggi sono premiati in festival nazionali e internazionali. È autrice di monografie e articoli pubblicati in riviste scientifiche di settore.
Quando e come hai iniziato a scrivere? Come è nata questa tua passione?
Ho capito che avrei voluto scrivere una storia tutta per me dopo avere letto Cime tempestose di Emily Brontë, avevo circa undici anni. Da un certo momento in poi, quello in cui sono diventata totalmente autonoma nella lettura, ho capito che la libertà ha molte forme: si può essere liberi camminando per i boschi del Trentino, per esempio, oppure nello scegliere quanto, come e cosa si desidera leggere. Leggere non è un atto passivo, implica sempre un processo di riflessione su ciò che viene trasmesso e su come viene trasmesso. Così, la scrittura è solo un’altra prospettiva di questo processo di analisi della realtà. Ricordo perfettamente che il primo racconto breve lo scrissi perché la realtà che vedevo non mi piaceva: ero a scuola, nell’ora di Italiano. La mia professoressa dell’epoca, dopo un’interrogazione, mi aveva detto che il mio talento andava imbrigliato. Non capii. Smisi di ascoltare le sue lezioni, del resto rileggeva malamente appunti e riassunti dal libro di testo, e cominciai a studiare da sola dal manuale di Luperini che era stato adottato dall’insegnante di una mia amica in un’altra classe. Il racconto, Lo spazio intorno, fu selezionato al Premio Campiello Giovani e poi diede il titolo alla mia prima raccolta nel 2015. Della professoressa barbosa che voleva mettermi le briglie non ricordo nemmeno il nome e adesso mi accorgo subito se qualcuno prova a ingabbiarmi, a dirmi chi sono e come dovrei essere. Del resto, preferisco cavalcare a pelo. Quindi direi che ho cominciato a scrivere per essere libera.
Come nasce un tuo romanzo e qual è la tua fonte di ispirazione?
Il movimento del ritorno (Les Flâneurs Edizioni), il mio primo romanzo, è nato perché ho cominciato a elaborare un testo che avevo pensato per il teatro. Senza sale senza tregua è una drammaturgia su una coppia che deve accettare la perdita di un figlio e che discute della propria relazione mettendo in crisi il senso del matrimonio oggi: qui, in questo tempo, niente è sacro, e spesso si sta insieme per sopravvivenza o convenienza o, peggio, per una forma sofisticata di ricatto. Non è il caso dei due personaggi, ma il loro amore viene messo alla prova dalla vita. Il movimento del ritorno si muove attorno a questa coppia, ma è un romanzo corale in cui emerge la responsabilità di essere parte di una società non sempre all’altezza di ciò che significa essere persone tra persone. Questo è anche il tema della poesia Il nido dello storno presso la mia finestra (1922) di W. B. Yeats che a un certo punto viene proposta dalla protagonista verso la conclusione de Il movimento del ritorno. Il mio secondo romanzo, che uscirà nel 2025, è la storia di legami ritrovati con le proprie origini: la relazione delle protagoniste con la polis è ancora più forte. Mi interessa la realtà e siccome sono cresciuta non addomesticata nelle mie estati trentine e negli inverni pugliesi, non posso fare a meno di pensare che la realtà sia sacra e che il nostro tempo sia troppo feroce. In effetti, non vedo un sistema che prima di tutto pensa a proteggere le persone che nascono, vivono e lavorano. Vedo un sistema che le sfrutta e le sfibra, che cerca di limitare la fantasia e la creatività. Vedo un sistema violento che spesso usa le parole del bene per fare il male. Oggi, forse, “realismo” non significa molto, è una categoria abusata quando non dimenticata. Però noi siamo la realtà che produciamo: forse un romanzo o una poesia non cambieranno il mondo, ma se anche solo una parola può produrre in una persona un po’ di sollievo, allora non sarà scritta o detta invano perché anche il pensiero è azione. Se il pensiero vuole produrre grazia e salvezza, non produrrà violenza e morte.
Qual è il genere letterario che preferisci scrivere?
Penso che il genere sopra i generi sia la ricerca: si può scrivere un romanzo d’amore o un giallo o un saggio… ma cerchiamo sempre qualcosa che ci manca. Forse posso essere filosoficamente più precisa: il mio genere è la privazione.
Il personaggio che hai creato che ti è più caro e perché?
Senza dubbio Matteo, il protagonista romano del racconto Preghiera di novembre del 2016 che lo scorso anno ha vinto la V edizione del Premio Tre Colori al 25° Festival Inventa un film di Lenola (LT) (colgo l’occasione per ringraziare ancora una volta il Premio, il Festival e i lettori giovani). Matteo è un uomo sensibile, sa ascoltare e si muove nella commozione, non è un indifferente. È un personaggio che mi disarma per la sua dolcezza: quando ho portato il testo in scena come monologo al pianoforte ho provato delle emozioni molto forti anche perché è linguisticamente impegnativo, ho cercato di rispettare la lingua romana che mi affascina da sempre. Spero che un giorno Matteo abbia la possibilità di vivere in carne e ossa, con tutte le sue qualità di uomo, in un cortometraggio. Ma vorrei anche riportarlo a teatro, prestargli la voce e suonare ancora Mozart per raccontare questa storia.
Qual è il consiglio più prezioso che hai ricevuto come scrittrice e che vorresti condividere con noi?
Il consiglio mi è arrivato da Dino Risi, grazie a suo figlio Marco che ho incontrato al Bif&st: se userai più di tre aggettivi in una sola frase avrai guastato il racconto.
Parlaci del tuo ultimo libro.
Pasolini maestro ribelle (Les Flâneurs Edizioni) è uscito il 25 aprile 2024, è un saggio dal taglio divulgativo sulla a-pedagogia e sulla filosofia dell’educazione pasoliniana. Grazie al mio percorso dottorale negli ultimi anni ho incontrato studentesse e studenti universitari o maturandi di vari indirizzi e ho avuto l’opportunità, immensa, di ascoltarli. Nel 1975 Pasolini lavorò a un “trattatello pedagogico”, ora in Lettere luterane (1976) che ha per titolo Gennariello. L’intellettuale-educatore si rivolgeva idealmente a un quindicenne napoletano, Gennariello appunto, o a una sua coetanea Concettina. Ho immaginato di rivolgermi sempre a Concettina per offrirle la testimonianza di un intellettuale marxista, partigiano e antifascista che credeva nel dialogo e nei giovani, soprattutto, nelle giovani. Mi interessava, soprattutto, offrire una definizione concreta della a-pedagogia pasoliniana che per anni è stata strumentalizzata e distorta dalle pedagogie neoliberiste.
Descriviti in 3 parole.
Pensiero, passione, lotta.
Di cosa ti occupi oltre ad essere un autore?
Sono una studiosa di arti dello spettacolo, nel mio percorso di dottorato (Scienze delle Relazioni Umane – UniBa) ho lavorato su un training metacognitivo per la formazione dell’essere sociale con le arti performative a partire dal progetto educativo del Manifesto per un nuovo teatro (1968) di Pasolini. Grazie alla Compagnia dei Felici Molti, che ho fondato nel 2017 in seno all’Associazione Felici Molti, la mia ricerca in ambito cinematografico e teatrale mi ha permesso di produrre tre cortometraggi e alcuni spettacoli. Sono una giornalista e critica cinematografica del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani.
Progetti futuri?
Il mio secondo romanzo, Tutta stesa sul mare. È dedicato ad Alessandro Leogrande e ai partigiani di Trento, uscirà nel 2025 per Les Flâneurs Edizioni.