Marco Paracchini è uno storyteller e comunicatore seriale nato a Novara nel 1976. Con una carriera che abbraccia oltre due decenni di esperienza, si è affermato come una figura poliedrica nel mondo della comunicazione audiovisiva, del web e della scrittura. Come regista freelance, dal 2005, ha contribuito alla creazione di numerosi progetti video per aziende, multinazionali, enti pubblici e organizzazioni no-profit. Il suo approccio creativo e la sua capacità di trasmettere messaggi chiari e coinvolgenti gli hanno permesso di ottenere riconoscimenti per alcuni dei suoi cortometraggi, come “L’Audace Viaggiatore” del 2009, “Giulia” del 2010 e “La donna in nero” del 2011, presentati in importanti kermesse italiane. Parallelamente alla sua attività di regista, ha messo a frutto il suo talento di storyteller per ideare campagne audiovisive volte a sostenere realtà di volontariato e a promuovere cultura ed eco-sostenibilità. Con passione e dedizione, ha guidato progetti no-profit finalizzati alla raccolta fondi e alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica su tematiche rilevanti (ENPA, U.F.A.F, Comune di Novara, ecc.). Le sue doti da storyteller lo hanno portato a scrivere diversi libri, spaziando tra la narrativa e la saggistica, a partire dal 2010. Grazie alla sua profonda conoscenza delle dinamiche dello storytelling e all’esperienza nel settore, i suoi testi hanno conquistato il pubblico con storie coinvolgenti e riflessioni profonde. Oltre alla sua attività creativa, Marco si è dedicato all’insegnamento accademico, condividendo la sua vasta esperienza presso importanti istituti. È docente all’Accademia di Belle Arti di Novara dal 2006, dove insegna discipline di Regia e Produzione Audiovisiva e Storytelling Transmediale. Dal 2017 invece ha portato la sua expertise anche allo IED di Milano, con una disciplina dedicata al Storytelling Audiovisivo. Nel corso degli anni, ha tenuto moduli didattici presso prestigiosi licei, come il Liceo Classico Cavour di Torino, insegnando Scrittura per cinema e televisione, e il pluripremiato ITI Omar di Novara. Oltre ai corsi accademici, Marco ha condiviso il suo sapere con molteplici corsi di Scrittura Creativa, Storytelling Cross & Transmediale, Regia e Storia dei Media nelle città di Milano, Torino e Novara. La sua passione per l’insegnamento e la sua abilità nel coinvolgere gli studenti lo hanno reso un punto di riferimento nell’ambito della formazione nell’industria dell’audiovisivo e della comunicazione. La sua esperienza pluriennale e i numerosi progetti di successo confermano il suo talento e la sua dedizione al mondo del storytelling.
Come è nata la tua passione per lo storytelling e quali sono state le principali influenze che ti hanno spinto a intraprendere questa carriera?
Innanzitutto grazie per questo spazio. E a questa prima domanda posso dirti che ho cominciato come credo un po’ tutti: per l’amore delle storie! Da bambino mi alimentavo di quantità industriali di anime, fumetti, serie tv e film. Già nella seconda metà degli anni ’80, alle scuole medie, ero colui che disegnava eroi in stile “Hokuto No Ken” e tutti volevano i miei disegni sui diari o sulle foto di classe. Così ho cominciato a realizzare fumetti amatoriali personali, inventando miei eroi, ovviamente tutti emuli di personaggi fictional già esistenti. Con gli anni ho maturato l’interesse verso lo storytelling cinematografico e ho deciso di percorrere quella strada studiando dapprima a Genova, poi a Milano e infine alla New York Film Academy. Ma nei primi anni di attività facevo il “tiracavi” (dicesi anche: “assistente generale del set”) perché, per dare un senso alla vita, dovevo fare altri lavori come il rappresentante di libri scolastici, poi l’agente immobiliare. La parte veramente professionale è esplosa solo nel 2005 quando hanno cominciato a prendere sul serio i miei cortometraggi, dandomi regie per video istituzionali che mi hanno permesso di farmi le ossa su set di brand nazionali di un certo spessore.
Tra i numerosi progetti video che hai realizzato, c’è un lavoro che consideri particolarmente significativo o che ha avuto un impatto speciale sulla tua carriera?
Debbo menzionartene due. Il primo, “L’Ultimo Giorno” è stato un cortometraggio che nel 2003 mi ha permesso di approdare seriamente ai festival nazionali di cortometraggi (all’epoca ce n’erano più di 300). Pensa che in quel periodo c’erano delle realtà che distribuivano i cortometraggi e ti pagavano pure i diritti. Oggi invece devi pagare per essere distribuito. Tornando a noi, quel breve film mi diede anche l’opportunità di essere presente su alcune emittenti satellitari e, di lì a breve, alcune associazioni o emittenti hanno cominciato a invitarmi come ospite. Ero entusiasta, ma anche spaesato, perché di fatto io ero ancora acerbo – professionalmente parlando – e non avevo la minima idea di come funzionasse il mondo dell’audiovisivo, quindi non riuscii a giocarmi bene le mie carte. Il secondo progetto è “L’Audace Viaggiatore”, film breve ch’è stata una vera sfida: non avevo mai girato con così tante persone, tra cast e troupe. Per me è stato sfiancante e delirante, ma mi ha dato la possibilità anche di ricevere il premio direttamente dalle mani di Abel Ferrara in persona, così come altre menzioni e premi speciali in diversi festival. Pensa che mi chiamarono anche anche da una casa di produzione per proporre alla Rai la versione televisiva, ma un cambio ai vertici fece crollare ogni possibilità di continuità sul discorso seriale. Un vero peccato.
Come regista freelance, quali sono le sfide più grandi che hai affrontato nel lavorare con enti così diversi come aziende, multinazionali e organizzazioni no-profit?
Ogni lavoro può essere spinoso, soprattutto quelli che appaiono come una “passeggiata”. Negli anni ’10 poi, con l’aumento dei videomaker, è diventato arduo far capire la figura del regista “vecchio stampo”, ossia colui che non esce da solo a fare le riprese, ma ha al suo cospetto una troupe. Le sfide più grandi sono state far capire a delle aziende che lo storytelling poteva essere la svolta. Mi spiego: tra il 2008 e il 2010 proponevo concept che all’epoca apparivano come sciocche (un esempio su tutti, un “web format”), cose che qualche tempo dopo invece erano sulla bocca di tutti. E parlo di brand dell’automotive, di viaggi e di food, quindi non proprio gli ultimi della classe. E un’altra sfida è stata quella di non farselo mettere in quel posto: a Milano c’è stato un periodo in cui gli squali erano sempre pronti a rubarti un’idea o a toglierti un ingaggio dopo una stretta di mano… Diciamo che ho passato momenti parecchio bui. Ma tornando al nocciolo della domanda, posso dirti che non c’è molta differenza tra enti così diversi: ognuno di loro appare sicuro su cosa vuole, poi i ripensamenti sono all’ordine del giorno. E lì la vera sfida è riuscire a portare a termine il lavoro!
I tuoi cortometraggi hanno ottenuto riconoscimenti importanti. Cosa ti ispira nella creazione di storie per il cinema e come affronti la scrittura di una sceneggiatura?
Grazie per questa domanda! Creare storie per l’audiovisivo, e in particolare per i cortometraggi, è stata ed è una parte essenziale del mio lavoro e del mio essere storyteller. L’ispirazione nasce spesso da un mix di osservazione del mondo reale, esperienze personali e la voglia di raccontare emozioni universali che possano toccare il pubblico. Mi lascio ispirare da dettagli apparentemente insignificanti: una conversazione casuale, un’immagine suggestiva, un ricordo o persino una poesia, com’è successo con “Il Dono”. La bellezza del cortometraggio sta nella sua intensità: hai poco tempo per raccontare una storia, quindi ogni elemento deve essere essenziale e incisivo! Quando affronto la scrittura di uno script, inizio sempre con un’idea centrale o un tema che voglio esplorare. Mi chiedo: qual è il cuore emotivo della storia? Poi passo a sviluppare i personaggi e il loro arco narrativo, sempre tenendo a mente che devono essere riconoscibili e autentici. La semplicità non è mai sinonimo di banalità. Ogni scena deve servire uno scopo, che sia spingere la trama in avanti o rivelare qualcosa di cruciale sui personaggi. Infine, lascio spazio per la sperimentazione. Mi piace giocare con tecniche visive, dialoghi ridotti al minimo e colonna sonora per comunicare ciò che le parole non riescono a dire. La collaborazione con il team è fondamentale: ogni contributo può arricchire la visione iniziale e portare la storia a un livello superiore.
Hai portato avanti progetti con temi legati alla cultura, alla violenza e alla eco-sostenibilità. Qual è stato l’approccio che hai utilizzato per sensibilizzare il pubblico attraverso il linguaggio audiovisivo?
Per sensibilizzare il pubblico su certi temi mi sono concentrato sul raccontare storie il più possibile autentiche che mettessero al centro le persone e le loro esperienze vissute. L’obiettivo era creare empatia attraverso immagini “belle” da ricordare e un linguaggio visivo anche evocativo, evitando così di risultare didascalico o moralista. Ho cercato di lasciare il giusto spazio alle emozioni, permettendo allo spettatore di riflettere, trasformando ogni progetto in un’esperienza coinvolgente e significativa. Non sempre è facile arrivare al cuore delle persone, ma va fatto, soprattutto per i temi forti come la violenza sulle donne.
Qual è l’aspetto più gratificante dell’insegnare storytelling e regia nelle accademie e nei corsi che hai tenuto?
L’aspetto più gratificante è vedere gli studenti scoprire il potere delle storie e imparare a dare forma alle proprie idee. Ogni volta che uno di loro riesce a esprimere qualcosa di autentico, che sia attraverso un cortometraggio, un racconto o una sceneggiatura, sento di aver contribuito a liberare il loro potenziale creativo! È un privilegio poter trasmettere le mie conoscenze e vedere come le fanno proprie, trasformandole in qualcosa di unico. Ma la vera soddisfazione è quando li vedo crescere, non solo come narratori, ma come persone capaci di guardare il mondo con occhi diversi.
Negli ultimi anni, lo storytelling transmediale è diventato sempre più importante. Come lo spieghi ai tuoi studenti e quali sono gli elementi chiave per svilupparlo in maniera efficace?
La transmedialità riesco a trasmetterla ai più giovani grazie ad alcuni personaggi Marvel o DC. Attraverso la transmedialità dei supereroi, che conoscono quasi tutti, riesco a farli avvicinare a elementi basilari come i narratemi di Vladimir Propp o al paradigma narrativo di Syd Field. Ma uso anche gli anime, posso dirti che funzionano molto bene, sai? Serie come Attack on Titan o Demon Slayer hanno una struttura narrativa avvincente e sono ottimi esempi per spiegare come una storia possa vivere su più piattaforme mantenendo coerenza e profondità. I ragazzi si appassionano e cominciano a capire che il mondo narrativo è vasto e interconnesso. L’unica cosa che ho notato essere peggiorata è la lettura: moltissimi non leggono quasi più nulla, nemmeno i fumetti. E senza la lettura, diventa arduo far comprendere i meccanismi delle trame e sottotrame che una storia può offrire.
Tra narrativa e saggistica, quale forma di scrittura trovi più stimolante? Hai un libro o un progetto scritto di cui vai particolarmente fiero?
Trovo stimolante scrivere gialli, soprattutto ambientati nella mia città o a Tokyo, dove sono stato per qualche tempo. Senza alcun dubbio vado fiero di Kenzo Tanaka, il primo detective nipponico (nell’editoria riconosciuta) inventato da un italiano! Ci crederesti mai? Quando l’ho saputo sono rimasto piacevolmente colpito. Uscito nel 2014 è al suo reboot editoriale con una piccola casa editrice romana (Re Artù Edizioni) e ha avuto anche due progetti paralleli mai andati in porto: una serie tv ambientata in Europa scritta da Paolo Fittipaldi e una graphic novel. I saggi sono stati utili a farmi conoscere al grande pubblico poiché con un saggio su James Bond ebbi l’occasione di apparire su Rai Uno, e con quello legato alle serie televisive (“Sociologia Telefilmica” Weird Book) ci sono stati ottimi riscontri, soprattutto da parte di alcune scuole interessate al testo.
Come vedi evolversi il ruolo dello storyteller nel panorama comunicativo attuale, soprattutto con l’avvento delle nuove tecnologie e dei social media?
Sarò molto sincero e diretto: lo vedo male. L’AI generativa si sta sviluppando in maniera repentina. La maggior parte della gente non s’è ancora accorta di quali potenziali hanno le nuove AI. Molti sciocchi ci giocano online e la moltitudine pensa siano cose banali o senza senso, ma è difficile credere che tra dieci anni gli storyteller esisteranno ancora come li conosciamo oggi. Il rischio è che si arrivi a un punto in cui le storie non saranno più uniche o autentiche, ma versioni infinite di racconti già fatti e rifatti dalle AI. Già ora ci troviamo sommersi in un mare di contenuti che non interessano a nessuno, dove la creatività umana perde il suo valore, figurati tra qualche anno. E per ciò che concerne i social-media odierni, a mio avviso si implementeranno: chiunque può essere qualcuno e guadagnare soldi, lo farà a discapito della dignità.
Se dovessi consigliare una strategia creativa a chi si avvicina per la prima volta al mondo del racconto audiovisivo, quale sarebbe il tuo consiglio principale?
Se tu fossi un neofita ti darei questi suggerimenti: partire dalle emozioni e dalle esperienze personali. Raccontare qualcosa che conosci, che ti tocca profondamente e che senti di voler condividere. Poi concentrarsi sul linguaggio visivo: pensare a come si può comunicare senza parole, usando immagini, suoni, musica e silenzi. Infine, guardare tanto cinema, leggere tanto, e soprattutto provare, sbagliare e imparare. Non si deve aver paura di sperimentare: la creatività nasce spesso dai limiti e dagli errori!
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