PEPPE CONSOLMAGNO

PEPPE CONSOLMAGNO nato a Rimini nel 1958, cresciuto in Italia, utilizza strumenti in gran parte autocostruiti con materiali recuperati nei suoi viaggi, come la zucca, il bambù, il legno ed il metallo. La sua musica si esprime attraverso strumenti che appartengono a culture extraeuropee, come quella del Brasile (sua principale fonte di ispirazione), dell’Africa e dell’Asia, ma che hanno un linguaggio in comune. Il Gong birmano, la Conchiglia, le Tazze da meditazione, i Vasi africani, i Flauti ad una nota pigmei, i Tamburi ad acqua ed il Berimbau, uniti alla voce ed allo stretto rapporto intimistico con essi, che egli ha, creano una dimensione unica dove prevalgono il suono naturale, il silenzio, il timbro ed il ritmo. Consolmagno ha già al suo attivo partecipazioni da protagonista a Festivals Internazionali come: “Umbria Jazz”, “Festival Internazionale del Jazz a Montreal in Canada”, “Jazz o Brasil” a Parigi, “Kunstamt Stegliz” a Berlino, “Drum 2000” festival delle percussioni a Bologna, “Festival di Musica da Camera” a Tolentino, “Centro Studi Brasiliani” C.E.B. a Roma, “World Music Festival” a Lanciano, “Percussion World and Sound PWS7” ad Asti, RAI “RadioTre Suite”, “Jaco Pastorius Music Festival” a Coriano, “V° World Music Festival” a Roma, “Musica dei Popoli” a Firenze, ” Festival Sete Sóis, Sete Luas” in Portogallo, “Percussionistica” World Rhythm Festival ad Umbertide, Istituto Musicale P.Mascagni a Livorno, Liceo Musicale a Catania, Conservatorio Vivaldi Alessandria, Attraverso Festival, Brasil Festival a Bologna, Festival Fano Jazz by the Sea, Festival Womad, Fandango Jazz Festival – La Palma a Roma, Festival I Suoni delle Dolomiti in  Trentino, Festival International de Sousse in Tunisia, Festival Banlieues Bleues a Parigi, Scat Jazz Club di Madeira, Festival de Órgão da Madeira. Ha una intensa attività di ricerca musicologica, che lo ha portato e lo porta a tenere seminari e workshops sulla musica extraeuropea e sulla costruzione degli strumenti a percussione. Peppe Consolmagno costruisce oggetti sonori per sé e per Nana Vasconcelos, uno dei suoi tanti estimatori.  Consolmagno ha scritto anche per riviste specializzate e quotidiani come “World Music”, “Percussioni”, “Strumenti Musicali”, “Jazz”, “DrumClub”, “Il Manifesto”, “Musica Jazz”, “Jazzit”, DrumSetMagazine, “Jazzitalia”, “CiaoJazz”, “CupaCupa”, “Musicando”, ed altre. E’ stato invitato a Salvador-Bahia (Brasile), come unico europeo al “III e IV PercPan” (Panorama Mondiale della Percussione). Attraverso il suo lavoro come giornalista e le sue interviste a famosi musicisti, egli intende dare voce allo stile ed alla linea di pensiero che lo accomuna a loro. Egli ha collaborato con altre forme di arte (teatro, pittura, scultura, poesia, danza), Istituzioni (Università e scuole), e media (radio e Tv). Il tappeto su cui Peppe Consolmagno sparpaglia i suoi strumenti sembra un’officina del ritmo e dei sogni, uno spazio liberato dalla cacofonia della vita moderna e dedicato al piacere del suono. Peppe costruisce oggetti sonori sia per sé che per Nana Vasconcelos, uno dei suoi numerosi estimatori. Alcuni strumenti li crea utilizzando materiali recuperati durante i suoi viaggi, mentre altri li immagina, unendo la sua voce alla sinfonia di timbri e colori che si sprigionano da questa singolare orchestra formata da una sola persona. Trasforma grandi cucurbitacee saheliane in tamburi ad acqua, utilizza un gong birmano, il suono sciabordante di un caxixi, vasi di terracotta africani che cantano, scrosci di sanza, flauti pigmei ed altri strumenti, provenienti dal Sud America, dall’Africa, dall’Asia e da regioni immaginarie. Alcuni strumenti sono presi in prestito dalle tradizioni più diverse, altri sono totalmente inventati o reinventati. Peppe Consolmagno, musicologo apprezzato e brillante, animatore di seminari e workshop, costruisce i suoi spettacoli come piccoli racconti ambientati in una dimensione magica.

Come è iniziata la tua passione per la musica e cosa ti ha spinto a creare strumenti musicali con materiali recuperati durante i tuoi viaggi?

La musica è un modo di vivere, fa e deve far parte del quotidiano. Il mio lavoro nasce dalla curiosità verso le varie culture, verso i materiali e le fibre che costituiscono gli strumenti e dalla necessità di entrare in stretto rapporto con loro. Conoscere i materiali vuol dire cercare, studiare, viaggiare, vivere la natura, i suoi spazi, incontrare persone, culture, tradizioni, confrontarsi e integrarsi, rispettare e apprendere. Il mio punto di partenza è stato il suono. Lo strumento musicale va considerato come un oggetto sonoro, che ha la sua storia e per questo motivo mi piace lasciar parlare i miei strumenti e far cantare le parole. Non mi sono mai riconosciuto negli strumenti musicali che esistono in commercio, ho sempre avuto la necessità di capirli, di conoscerne la provenienza, come e con cosa sono realizzati, la loro intonazione e la maniera con cui vengono suonati. Da qui l’esigenza di adattarli al mio modo di fare musica o, il più delle volte, di costruirli. Ricordo spesso che in alcuni paesi esiste proprio la filosofia del “gesto musicale”, che porta intere famiglie a dedicarsi alla costruzione degli strumenti musicali. Il musicista è rispettato e lo strumento è amato: suonare male uno strumento tipicamente “religioso” è come bestemmiare.

In che modo le culture extraeuropee, come quelle del Brasile, dell’Africa e dell’Asia, influenzano il tuo lavoro musicale?

Sono sempre stato amante della natura, dei silenzi, dello spazio, del suono e della gestualità. E’ necessario aver ben chiaro che ogni cultura si esprime musicalmente con i suoi strumenti, con la loro tecnica di costruzione, con la loro maniera di suonarli, con la loro pulsazione e questo accade pur utilizzando materiali simili. Più che di musica si parla di gesto musicale e di maniera di vivere. Questi principi si trovano in varie parti del mondo, ma per quanto mi riguarda li ho trovati in Brasile, un paese pieno di contraddizioni, che si muove dentro un triangolo colorato: giallo, nero e bianco. Un paese che mi fa sentire a casa. Non suono musica brasiliana, o africana o asiatica in modo specifico. Fare una cosa esattamente uguale all’originale non è nelle mie corde: Lo è invece riportare tutte le informazioni che acquisisco viaggiando, studiando, scrivendo, nel mio bagaglio di esperienze per poi personalizzarle. L’importante è essere sempre rispettosi della tradizione, che è una cosa estremamente profonda. Le mie musiche infatti sono originali senza etichetta che mantenendo la mia autenticità.

Puoi descrivere il processo di costruzione di uno dei tuoi strumenti musicali preferiti e il significato che ha per te?

Mentre costruisco i miei strumenti li vivo e quando suono dialogo con loro. Non mi è mai piaciuto comprare uno strumento senza conoscere la sua storia, la sua provenienza, chi l’ha costruito, come lo si suona. Conoscere i materiali, le fibre e le possibilità che offrono, permette di fare da ponte tra l’esigenza strumentale e la parte creativa. E’ pur vero che tutto suona, ma non tutto riesce a finire in musica, e questo dipende da come viene costruito e da come viene suonato. Costruire un vero strumento musicale che sia capace di esprimersi in contesti musicali differenti, sia acustici che amplificati, sia in studio che dal vivo con una piccola o grande platea di pubblico non è affatto facile. Quando decido di costruire uno strumento devo essere molto concentrato sulla musica, sul suono e sulle caratteristiche dei materiali utilizzo. Altrimenti lo strumento non viene fuori, non suona come dovrebbe, non riesci a suonarlo. Diversi sono gli strumenti che mi sono costruito e che fanno parte del mio set, il Berimbau, i caxixi, gli udu (n terracotta ed anche in vetro, Nana’ mi diede lo stimolo a realizzarlo), i semi, i campanelli, il pecopeco, il kutuwapà, lua e tanti altri. Gli strumenti invece che ho acquistato, seppur se scelti con attenzione, li ho sempre modificati, personalizzati ed in alcuni casi totalmente stravolti, uscendone fuori cose davvero uniche. Ho costruito strumenti anche per colleghi di fama mondiale, primo fra tutti Nanà Vasconcelos con cui ho un avuto un rapporto privilegiato, collaborazioni in Europa e in Brasile, un cd in trio con lui, e nonostante la sua prematura dipartita, ancora oggi sostengo insieme alla vedova Patricia, la sua figura e il valore che ha ancora oggi nel panorama musicale mondiale. Su sua richiesta realizzai per lui i caxixi, i semi marroni scuri e chiari che hanno fatto sempre parte del suo set, un caxixi gigante, un piccolo udu in terracotta e altre cose interessanti. Indicare uno strumento in particolare non è facile. I caxixi per me sono strumenti fondamentali, li considero come fossero i piatti e il rullante. Anche a loro ho dedicato anni di studi per arrivare al modello definitivo. Come tutte le cose semplici anche il caxixi è “semplice”: cesto di vimini intrecciati, base risonante in zucca, semi all’interno, eppure eppure…

Qual è stata l’esperienza più memorabile che hai avuto partecipando a festival internazionali come Umbria Jazz o il Festival Internazionale del Jazz a Montreal?

Partecipare a festival internazionali è un grande privilegio e si vive in una dimensione professionale che purtroppo spesso manca in altre situazioni. In questi festival nulla viene lasciato al caso. Tutto è a servizio di un buon risultato. Non devi chiedere niente. Ognuno ha il suo ruolo. La scheda tecnica deve essere dettagliata e precisa, la cura della logistica legata ai trasporti, ai bagagli, ai flight case, delle zone di accesso, dei permessi, l’hotel, gli orari per le interviste e per i sound ceck. Nulla viene improvvisato. Si pensa che organizzarsi così sia un costo, in parte lo è anche, ma i dettagli fanno la differenza, l’approssimazione non paga, l’armonia sul posto di lavoro, la cortesia e il rispetto, se li hai non costano niente ma fanno una differenza enorme. La musica e il musicista ha bisogno di questo per poter esprimersi al meglio e stimolare la creatività. A Montreal è stato così, ero con il Marangolo Quartetto Orizzontale, un ricordo da esempio da tenere nel cuore, anche il Festival Womad, quello diretto da Peter Gabriel un ricordo indelebile, arrivati sul palco tutto già microfonato rigorosamente secondo la scheda tecnica inviata, ero con il quartetto Ishk Bashad, sound ceck fatto in pochissimi minuti, suoni ripresi in maniera impeccabile, saliti sul palco, tutto si sentiva bene, concerto registrato a cui è seguito il cd. Fra tanti potrei citare il Festival a Madeira (Portogallo), Festival a Sousse (Tunisia) Parigi (con Nana’ Vasconcelos in trio), PercPan a Salvador Bahia (Brasile sempre con Nana’), tutti in cui si respirava un’aria differente, piena di buona energia. Le cose belle nascono da queste cose. Il problema è tornare nelle piccole realtà quando sono mal gestite: approssimazione, poca professionalità, troppo provincialismo, poco rispetto. Peccato perché le piccole realtà hanno delle eccellenze a cui purtroppo a causa di arroganza e presunzione non vengono valorizzate.

Come riesci a integrare il suono naturale, il silenzio, il timbro e il ritmo nei tuoi spettacoli musicali?

La voce come equilibrio, il silenzio come musica, il suono come veicolo di emozione e il ritmo come pulsazione queste sono gli elementi su cui è basato il mio percorso musicale. Esiste una relazione intima tra suono e silenzio. Il silenzio in musica è la miglior musica. Basterebbe concentrarsi nell’equazione: più silenzio, meno note. Mi piace ricordare quello che ha detto Munir Bashir: “Se la musica non esce dall’anima, resta solo il rumore”. Ho sempre creduto fermamente che fare musica sia un privilegio. Ragion per cui va fatta con un grande senso di dignità. Anche stare su di un palco è un momento di grande responsabilità e non mi stanco mai di dire che il pubblico va sempre omaggiato. Sia nel mio concerto in solo, sia quando collaboro con altri musicisti cerco di “accomodarmi” nel luogo dove devo suonare, capire il tipo di collocazione, la cura dei dettagli, la spazialità in cui mi trovo, il suo riverbero. Se il concerto è amplificato, cerco di valutare anche il tipo di impianto, quanto è stata rispettata la scheda tecnica e se il livello dell’organizzazione e del service mi mette in condizione di stare a mio agio rispettando i miei strumenti, che hanno frequenze molto ampie. Non capita spesso, nonostante le raccomandazioni, troppo presappochismo c’è in giro. Ma capita per fortuna. Avendo chiaro dove mi trovo, già cerco di capirlo anche dai primi contatti telefonici, capisco quello che posso fare, in quale direzione posso muovermi e quanto mi posso spingere. A questo punto inizia il rituale della preparazione del mio set sul palco e da lì ha tutto inizio. Non a caso il mio ultimo progetto in solo si chiama “Dance of Voices” – (voce, coro, percussioni, symbols). Voce la mia, qualcuno fece a tal proposito una bella considerazione: “una voce sola, la voce di infinite voci”. Voci quelle del pubblico con cui interagisco e lo conduco a divenire una vera e autentica orchestra di voci. Giocare con il riverbero che risponde, ti circonda, che dà spazialità, inseguendo il suono realizzando un pan pot naturale, facendo musica con poco. Per me è importante, e questo vale anche con i musicisti con cui collaboro, fare musica senza compromessi, andando oltre agli stili.

Quali sono le sfide e le soddisfazioni che incontri nel tenere seminari e workshop sulla musica extraeuropea e sulla costruzione degli strumenti a percussione?

E’ una parte interessante del mio lavoro. Mi dedico a varie fasce di età, dai corsi preparto, all’infanzia, all’adolescenza fino ad un pubblico più specifico di addetti ai lavori. I miei seminari/workshop sono aperti a tutti: ai bambini, agli anziani, attori, danzatori, agli insegnanti, musicisti non necessariamente percussionisti. Mi piace molto portare il mio modo di fare musica, i miei strumenti, le culture extraeuropee in conservatori ed istituti musicali. Dare modo agli studenti di vedere oltre alla cultura occidentale sia per quanto riguarda gli strumenti, sia per la pulsazione ritmica che identifica le varie culture al mondo. Cose queste che spesso in questi luoghi manca. L’Arco Musicale come ad esempio il Berimbau, è l’antenato di strumenti a corda come la chitarra e il liuto, gli strumenti a pizzico come il clavicembalo, quelli a strofinio come il violoncello o percossi come il pianoforte. La cultura occidentale invece lo ridicolizza, che testimonia quanta poca cultura veicola, quanta presunzione. Ho dedicato anche molto tempo all’attività di scrittura collaborando con riviste nazionali, quotidiani, Rai ect. con monografie, interviste, articoli, reportage. Queste esperienze mi hanno fatto crescere la consapevolezza di chi sono e dove sono.

In che modo la tua collaborazione con artisti di altre forme d’arte, come teatro, pittura, scultura e poesia, arricchisce la tua espressione musicale?

Come si può pensare alla musica senza la parte creativa, senza interagire con le altre forme d’arte. L’incontro è molto necessario. Quando si ha a che fare con professionisti ha un senso. Ci sono organizzatori che propongono progetti in cui inseriscono artisti di estradizione culturale differente e che si trovano a dialogare direttamente sul palco. Le cose migliori accadono così. In condizioni diverse è molto facile banalizzare.

Progetti futuri?

Continuare a fare cose belle con altri, fare sempre incontri stimolanti, suonare con musicisti a cui piace fare musica senza compromessi. Non mi interessa in quale direzione (sono passato dalle musiche elisabettiane del ‘600, al rock, dalle variazioni di Goldberg alla musica di autore, dalla poesia alla scultura, dalla musica per bambini al jazz, alla musica senza confini, definizione in cui mi identifico più di altre), l’importante è poter essere libero e sempre ben collocato.

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