Pierfrancesco è un artista che ha intrapreso un percorso di trasformazione radicale, passando dall’imprenditoria all’arte. La sua evoluzione nasce da un momento di riflessione profonda, quando il “rumore del fare” dell’imprenditoria non rispondeva più alle sue esigenze interiori. L’incontro con uno specchio rotto è stato il punto di svolta, rivelando un linguaggio visivo che rispecchia la sua ricerca di verità imperfette e vibranti. Il suo lavoro si caratterizza per l’uso dello specchio, un materiale che considera un paradosso, in quanto riflette la verità ma non restituisce mai l’essenza profonda dell’individuo. La sua arte esplora il concetto di identità e percezione, creando una tensione tra la precisione dell’incisione e l’imprevedibilità della frattura del vetro, che simboleggiano sia distruzione che rivelazione. Scandola vede la frattura come un’opportunità di trasformazione, non di inutilità, e la sua poetica si nutre dell’imprevedibilità e del rischio. Le sue opere invitano lo spettatore a guardarsi davvero, mettendo in discussione l’immagine riflessa come punto di partenza per una riflessione più profonda su sé stessi. Collabora strettamente con la curatrice Charlotte, considerandola una parte integrante del processo creativo, un prisma che moltiplica e amplifica la sua visione. La sua arte, in continua evoluzione, sfida il concetto di spiegazione e offre spazi di ambiguità e scontro. Nel futuro, Scandola intende esplorare il concetto di trasparenza e il rapporto tra immagine e suono, con progetti che lo porteranno a esporre anche oltreoceano e in performance audio-visive.
La tua storia è segnata da una trasformazione radicale: da imprenditore ad artista. Qual è stato il momento di svolta che ti ha portato a scegliere l’arte come nuovo linguaggio espressivo?
C’è stato un momento in cui il rumore del “fare” ha smesso di avere un senso per me. L’imprenditoria mi aveva insegnato a costruire, pianificare, produrre. Ma mi mancava qualcosa di essenziale: il tempo per guardarmi davvero. Un giorno ho osservato uno specchio rotto e mi è sembrato che dicesse più di quanto avrei mai potuto dire io a parole. Lì ho capito che il linguaggio che cercavo era visivo, vibrante, imperfetto. Così è iniziato tutto.
L’uso dello specchio nelle tue opere sembra essere un simbolo potente, tra riflesso e frattura. Come hai scoperto questo materiale e cosa rappresenta per te?
Lo specchio è un paradosso perfetto. È verità e illusione. Riflette ciò che c’è, ma non restituisce mai quello che sei davvero. L’ho incontrato per caso, ma ci siamo riconosciuti subito. Lavorarlo, graffiarlo, frantumarlo è come affrontare un dialogo con la propria identità. È un materiale che mi costringe a non mentire.
Il tuo lavoro unisce due pratiche apparentemente lontane: le penne per il tatuaggio e le crepe create con il martello. Come è nata questa combinazione?
Ho sempre visto il tatuaggio come una forma di incisione dell’anima. L’idea di trasferire questo gesto sulla superficie di uno specchio è venuta quasi istintivamente: se la pelle è il primo specchio del nostro vissuto, perché non estendere questo rituale anche al vetro? Poi c’è il martello, che è puro gesto, istintivo, primitivo. È il caos che rompe la superficie e apre uno spazio nuovo. Tra il controllo dell’incisione e l’imprevedibilità della frattura si crea una tensione che mi interessa molto.
Cosa significa per te incidere e rompere la superficie riflettente? È un gesto di distruzione o di rivelazione?
È entrambe le cose. Distruggo per rivelare. Ogni taglio è una possibilità, una finestra oltre la patina dell’immagine. Quando rompo lo specchio non lo rendo inutile, lo trasformo. È una riflessione sulla vulnerabilità e sulla bellezza dell’errore.
Lavorare con gli specchi implica sfide sia tecniche che concettuali. Quali sono le difficoltà maggiori che incontri e come le trasformi in elementi della tua poetica?
Il vetro non perdona. Una crepa fuori posto può distruggere ore di lavoro. Ma ho imparato a lasciare spazio al rischio. Quello che nasce da un errore tecnico, a volte, è la rivelazione concettuale più forte. L’imprevedibilità è parte della mia poetica. Non controllo lo specchio: lo accompagno nel suo cedimento.
Le tue opere non si limitano a riflettere l’immagine dello spettatore, ma sembrano voler svelare qualcosa di più profondo. Qual è il messaggio che vuoi trasmettere attraverso la tua arte?
Voglio che chi guarda si senta esposto. Voglio che lo specchio non sia solo superficie, ma abisso. Ogni frattura racconta una storia, ogni incisione è una domanda. Il mio messaggio è semplice e brutale: guardati davvero. Quello che vedi nello specchio non sei tu, ma è un punto di partenza.
Il concetto di identità e percezione è centrale nel tuo lavoro. Pensi che lo specchio sia un mezzo per svelare o per mettere in discussione l’essenza di chi lo osserva?
Lo specchio ti costringe a fare i conti con te stesso. Ma lo fa in modo ambiguo. Ti svela e ti inganna. La mia arte non offre risposte, ma mette in discussione la linearità del riconoscersi. Non c’è una sola identità. Ogni riflesso è uno dei tanti volti che ci portiamo dentro.
Collaborare con una curatrice significa confrontarsi con un punto di vista esterno sul proprio lavoro. Come hai vissuto questo dialogo?
Con Charlotte il dialogo è stato sorprendentemente naturale. Lei ha capito fin da subito che non volevo solo esporre, ma creare un’esperienza. Ha saputo ascoltare e anche mettersi in discussione. È raro trovare qualcuno che sappia entrare in punta di piedi dentro un lavoro così intimo, e allo stesso tempo amplificarne la voce.
La curatela può essere vista come un filtro interpretativo o come un’estensione del pensiero dell’artista. Quale ruolo ha nel tuo percorso?
Per me è un’estensione. Non è un filtro che riduce, ma un prisma che moltiplica. La curatela, se fatta con sensibilità, può rivelare aspetti che l’artista stesso non vede. È un’alleanza, non un compromesso.
L’allestimento e la disposizione delle opere influenzano profondamente la loro percezione. Quanto è stato importante per te il confronto con la curatrice nella costruzione dello spazio espositivo?
È stato fondamentale. Gli specchi vivono dello spazio che li circonda. Riflettono, distorcono, inglobano. Charlotte ha costruito un contesto in cui le opere respirano. Abbiamo pensato ogni angolo come un momento narrativo. Niente è stato lasciato al caso.
In un contesto artistico in continua evoluzione, quale pensi sia il ruolo dell’arte oggi?
L’arte oggi deve avere il coraggio di non spiegare tutto. Deve creare spazi di ambiguità, di silenzio, di scontro. Siamo circondati da immagini e parole che ci saturano. L’arte, secondo me, deve tornare a essere un’esperienza che disarma.
Quali sono le direzioni che senti di voler esplorare nella tua ricerca dopo questa esperienza?
Sto riflettendo sul concetto di “trasparenza” come nuova frontiera. Voglio lavorare con vetri sovrapposti, con riflessi multipli, e forse con materiali sonori. Mi interessa l’idea che l’immagine possa anche essere un’eco.
Dove potremo vedere le tue opere nei prossimi mesi? Ci sono progetti futuri o collaborazioni in arrivo?
Ci sarà una nuova installazione site-specific in uno spazio decisamente particolare, dove l’architettura dialogherà direttamente con gli specchi. Sto anche lavorando alla realizzazione di un percorso espositivo che andrà oltreoceano e una collaborazione con un musicista, per una performance audio-visiva. E poi, ovviamente, sto già pensando a come spaccare tutto in modo nuovo.
A cura di Charlotte Madeleine Castelli








