Simone, 31 anni, è un cuoco napoletano con una passione innata per la cucina, nata sin da bambino tra le mani amorevoli dei nonni. I suoi primi ricordi culinari risalgono ai weekend trascorsi nella casa dei nonni, immerso nei profumi del ragù napoletano che sobbolliva lentamente e nel rito della pizza fatta in casa. Questa passione, inizialmente inconscia, si è trasformata in una vocazione durante gli anni delle superiori, quando studiava elettronica e telecomunicazioni a Napoli. Determinato a inseguire il suo sogno, Simone ha completato gli studi tecnici per poi intraprendere un percorso professionale nella ristorazione, lavorando come cameriere durante eventi e, successivamente, frequentando una scuola privata di cucina. Da lì è iniziato un viaggio fatto di sacrifici, stage in ristoranti e ville per ricevimenti, fino a collaborare con un ristorante stellato a Napoli. Il legame con la sua terra d’origine è fortissimo: le tradizioni e i sapori napoletani sono la base delle sue creazioni, che cerca di arricchire con rivisitazioni personali. Il suo obiettivo è quello di emozionare attraverso i piatti, far riaffiorare nei clienti ricordi d’infanzia e sensazioni autentiche. La ricerca dell’equilibrio tra tradizione e innovazione è al centro della sua filosofia culinaria. Simone crede che la bravura, la caparbietà e la costanza siano gli ingredienti essenziali per avere successo, mentre la fortuna gioca un ruolo minore e va conquistata con il duro lavoro. Dopo aver lasciato Napoli per crescere professionalmente, si è trasferito a Lugano, dove ha collaborato con lo chef Carmine Mottola, figura che considera fondamentale nel suo percorso. Oggi, Simone guarda al futuro con spirito imprenditoriale, sognando un giorno di aprire un ristorante tutto suo. La sua cucina, ispirata agli stati d’animo e ai ricordi d’infanzia, è un omaggio alla tradizione napoletana rivisitata con creatività. La sfida più grande rimane quella di trasmettere emozioni autentiche attraverso ogni piatto, trasformando ogni servizio in un’esperienza indimenticabile.
Le tue origini napoletane sono una parte fondamentale della tua cucina. C’è un piatto tradizionale a cui sei particolarmente legato e che ami reinterpretare?
Ti risponderei tutti. È Molto difficile scegliere, tra pasta e fagioli con le cozze, lo spaghetto del poverello, genovese, pasta e patate con provola, il ruoto al forno, spaghetti alla nerano, parmigiana di melanzane e tanto altro uno si perde, però se proprio dovessi scegliere ti dico la nerano. Ho tanti ricordi associati a questo piatto, da quando ci ho messo un po’ ad imparare a farla, a quando mia sorella mi chiedeva di prepararla a casa sua, al farlo diventare il piatto preferito di mia moglie ed era presente anche nel menu del mio matrimonio. Quindi solo good vibes.
Hai raccontato che il tuo percorso è iniziato durante gli anni delle superiori. C’è stato un momento preciso in cui hai capito che la cucina sarebbe stata il tuo futuro?
Esattamente durante il 4 anno di superiori, cucinavo a casa e vedevo che mi piaceva sempre di più, cercando di reinterpretare anche piatti della tradizione e sperimentare piatti nuovi. Mi appassionava sempre di più anche venendo a conoscenza di tecniche di cottura, reazioni, giochi di colori. Più che altro anche la trasformazione di un alimento che ti può creare ad un piatto finito che sarà il sostentamento tuo o di altri e che quel lavoro può trasmettere emozioni, che possa essere anche solo un “ wow che buono” .
La tua cucina è un mix tra tradizione e innovazione. Come trovi l’equilibrio giusto tra il rispetto per la tradizione e la voglia di sperimentare nuovi sapori?
Sicuramente i sapori della tradizione sono sacri. L’innovazione può essere in una consistenza diversa, l’esaltazione di un sapore rispetto ad un altro o l’abbinamento di quel piatto della tradizione ad un’altro sapore con cui si sposa bene. Ad esempio uno spaghetto del poverello, che è un piatto antichissimo di Napoli, fatto solo con strutto, pasta e un uovo ad occhio di bue, lo trasformerei facendo uno spaghettone con strutto e peperoncino, crema all’aglio nero e uovo in camicia. Poi certo la cucina è tanto provare e riprovare fino a che trovi equilibrio ai nei sapori per poi passare anche all’equilibrio estetico del piatto.
Nel tuo percorso hai avuto l’opportunità di lavorare con Chef Carmine Mottola. Qual è l’insegnamento più prezioso che hai ricevuto da lui?
Ho avuto ed ho tutt’ora l’opportunità di lavorarci. Lo chef Mottola oltre che un mentore ed un maestro è un amico. L’insegnamento più prezioso in assoluto che mi ha dato è stato il credere in se stessi e nelle proprie capacità, imparare a rialzarsi sempre e sempre più forti ed ampliare i propri orizzonti ed i propri obiettivi. A non fare promesse ma stupire se si può e soprattutto a guardare oltre. Con lui sono cresciuto tanto, sia professionalmente che personalmente ed è grazie anche a lui che ad oggi mi sto realizzando piano piano e sto continuando a crescere.
Spesso parli dell’importanza di emozionare i clienti attraverso i tuoi piatti. C’è un episodio particolare in cui hai visto questa magia accadere?
Assolutamente sì. Se devi essere onesto vorrei raccontarne due di episodi. Il primo è mentre lavoravo in un ristorante a Lugano, ero lo chef, avevo preparato come piatto del giorno una pasta mista con il cavolfiore, pensando a come la fa mia madre, ricordando quando ero a casa e la mangiavo. Cucinando con quel ricordo, c’era un cliente che era abituale e si complimentava spesso, ma quel commento sulla pasta e cavolfiore mi ha segnato e mi disse “chef mi hai fatto tornare bambino con questa pasta, ricordando mia mamma che la cucinava “. Mentre il secondo è quello che porto nel cuore e che ogni volta che ci penso mi scappa un sorriso. Lavoravo in una scuola privata a Napoli, a Scampia, scuola materna ed elementare, avevo la cucina stesso in struttura e facevo da mangiare a tutto l’istituto. Ero solito fare un giro ogni tanto per le classi per chiedere ai bambini se fosse piaciuto il pranzo e si sa, non ci sono peggior critici che i bambini, le bocche della verità. Ed un giorno entro nelle classi ed i bimbi mi accolgono con un coro in festa “chef chef chef chef chef “ come in trionfo e quasi mi commossi. E dopo anni ancora si ricordano di me e della mia cucina. La semplicità che ripaga.
Guardando al futuro, quale sarebbe il concept ideale per il tuo ristorante dei sogni?
Direi semplicità complessa. Idea di base di cucinare cose semplici, piatti conosciuti, di casa, ma magari rivisitati con tecniche all’avanguardia, estrazioni di sapori, ricerca di umami, esaltare prodotti di qualità. Una buona cantina con etichette selezionate e soprattutto pochi posti per dedicarmi totalmente ai miei ospiti.
Hai parlato di quanto sia difficile il ricambio generazionale nel mondo della ristorazione. Che consiglio daresti a un giovane che sogna di intraprendere questa carriera?
Una sola parola: UMILTÀ. Purtroppo in questi ultimi anni vedo che si è persa tanto. Io ho fatto gavetta e sono cresciuto e mi sono formato con chef che ti mandavano a prendere il caffè al bar del locale perché dovevano mettere il pizzico di sale segreto nella loro ricetta e con chef che prendevano a calci nelle caviglie se eri rilassato mentre eri al tagliere o a mestolate sui fianchi se facevi qualche guaio o sbagliavi. Non dico che questo sia giusto, ma forse oggi con un corso dove paghi 20000€ per conoscere le basi, non puoi uscire da lì e credere di essere il migliore. Hai la conoscenza sicuramente, ma la gavetta ed il saper stare in cucina è un’altra cosa.
Il consiglio che posso dare è sicuramente formarsi, studiare, tenersi aggiornati, sperimentare, sempre, ma soprattutto tanta tanta umiltà.
La tua cucina sembra essere molto influenzata dagli stati d’animo. C’è un ingrediente che rappresenta meglio di altri le tue emozioni?
Ma secondo me no, ognuno degli ingredienti ha delle sue particolarità, di base tutte sullo stesso piano, poi nel momento in cui decido di realizzare un piatto qualcuno spicca di più rispetto ad altri.
Napoli è famosa per i suoi dolci tradizionali. C’è un dessert che ami preparare e che ti riporta immediatamente ai ricordi d’infanzia?
Per quanto io non ami particolarmente la pasticcera, i dessert della tradizione sono sempre difficili da scegliere. Se mi quale mi riporta all’infanzia di dico sicuramente babà e pastiera sono al primo posto in assoluto. Il babà mi riporta sempre al ricordo della nonna, che la domenica dopo un pranzo durato dalle 2 alle 3 ore, verso le 19:00 tirava fuori questo babà fatto in casa, non nei soliti pirottini, ma in ruoto, con una bottiglia piccolina di vetro a parte dove c’era la bagna al limone, rigorosamente non alcolica perché lo dovevamo mangiare anche noi bambini. E poi c’è pastiera che mi riporta ai momenti di gioco principalmente con mia madre, con lei che faceva le striscioline ed io le sistemavo oltre a rubare e mangiare l’impasto della frolla per la quale impazzisco ancora oggi.
Se potessi cucinare per una persona che ammiri particolarmente, chi sarebbe e quale piatto sceglieresti di preparare?
Se parliamo di persona che ammiro nel mio settore ti direi Cannavacciuolo dove ecco rispecchio la semplicità, ingredienti semplici ma trasformati estrapolando il loro massimo e con questo raggiungere dei risultati favolosi. Per lui servirei un piatto della tradizione ma rivisitato, che potrebbe essere un piatto di linguine con crema di cozze, spuntoni di crema di bufala, tocchetti di patate ed olio al prezzemolo. Mentre se parliamo di persone della mia vita che stimo, ne sono tante: i miei genitori, mia moglie, mia sorella, i miei suoceri. Se potessi farei un’unica tavolata con loro ed altre persone che stimo dove servirei un ragù napoletano, che rappresenta dedizione, cura, attenzione, tempo ma che ti fa sentire al sicuro, ti fa sentire a casa.



